02 January 2008

Dicembre 2007

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ROMA – Non si ferma la strage alle porte della Fortezza Europa. È stato uno dei mesi con più morti quello di dicembre. Un mese iniziato col summit euro-africano di Lisbona, e proseguito con l’allargamento a est dell’Area Schengen e con la firma dell’accordo italo-libico per il pattugliamento congiunto. Un mese finito con 243 vittime tra migranti e rifugiati, dei quali 120 nel mar Egeo, 96 sulle rotte per le Canarie, 17 lungo le coste algerine, e 10 al largo dell’isola francese di Mayotte, nell’Oceano Indiano. Un tragico bilancio, che chiude un anno, il 2007, che si lascia alle spalle almeno 1.861 morti. Erano stati 2.088 nel 2006. Difficile confrontare i dati, visto che si basano esclusivamente sulle notizie riportate dalla stampa e quindi non costituiscono cifre esaustive. Ma esaminando solo il numero delle vittime in mare, l’ultima tappa dei viaggi, i morti del 2007 sono 1.684, contro i 1.625 dello scorso anno. Il che indica un netto aumento delle vittime, dato che gli arrivi sono sensibilmente diminuiti in tutta la frontiera sud - con l’eccezione di Malta, Cipro e Grecia – a causa delle migliaia di respingimenti in mare operati dall’agenzia comunitaria Frontex, e dalle decine di migliaia di arresti operati in tutto il Nord Africa.

I morti al largo delle Canarie sono passati dai 1.035 del 2007 ai 745 del 2007, ma a fronte di un calo degli arrivi del 75%. Nel Canale di Sicilia le vittime censite da Fortress Europe sono 551 contro le 302 dello scorso anno e con una diminuzione degli arrivi del 20%. Disastrosa la situazione dell’Egeo: 257 morti censiti, contro i 73 del 2006, anche con un raddoppio del numero di migranti sbarcati sulle coste della Grecia. Ad ogni modo, attraverso le rotte di tutto il Mediterraneo e dell’Atlantico, nel corso del 2007 sono arrivate in Europa meno di 50.000 persone, ovvero meno di un terzo dei 170.000 immigrati che solo il Governo italiano ha richiesto per soddisfare il proprio fabbisogno di manodopera straniera con il decreto flussi del 2007, attraverso i recenti click days.

Welcome to Seferihisar. Sulla frontiera Turchia-Grecia, l’anno non poteva finire peggio. Nella sola notte del 10 dicembre, un naufragio (VIDEO) al largo delle coste di Seferihisar, nella provincia di Izmir, ha fatto più morti che non durante tutto il 2006. Erano partiti in una notte di tempesta per evitare i controlli, ma la nave si è rovesciata in mare con tutti gli 85 passeggeri. Soltanto 6 i superstiti. La loro meta era l’isola greca di Chios, distante meno di un’ora di navigazione. Tra i 51 cadaveri ripescati nelle ore successive, quelli di 10 egiziani, 17 siriani e 10 palestinesi. Segno che la Turchia si conferma una rotta tanto più frequentata quanto più si restringono le altre, ad esempio quella libica. Nelle due settimane successive altri due naufragi causano 8 morti a Bodrum e 32 a Lesvos. È l’anno nero dell’Egeo. Almeno 257 vittime, contro le 73 del 2006. Almeno 885 annegati dal 1994. Ma ad aumentare sono stati anche gli arrivi. Dati ufficiali parlano di 10.000 persone sbarcate contro le 4.000 del 2006 e le 3.000 circa degli anni precedenti. A Samos sono arrivati 2.404 migranti in otto mesi, contro i 1.580 di tutto il 2006 e i 455 del 2005. Anche l’Acnur ha espresso preoccupazione, in particolare per gli oltre 3.500 iracheni che hanno chiesto asilo nei primi sei mesi dell’anno in un Paese, la Grecia, che non ha mai dato asilo ad un solo iracheno. Il diniego delle domande d’asilo in Grecia è sistematico: su 13.345 richieste d’asilo nei primi sette mesi del 2007, sono stati riconosciuti solo 16 rifugiati e 11 protezioni umanitarie. Lo 0,2%. Tutti gli altri vengono deportati in Turchia. E parliamo soprattutto di cittadini kurdi, ovvero richiedenti asilo riammessi in un Paese che sta bombardando il Kurdistan irakeno, alla faccia del Paese terzo sicuro. L’accordo di riammissione tra Grecia e Turchia risale al 2001. Dall’aprile 2002 al novembre 2006, la Grecia ha chiesto alla Turchia la riammissione di 23.689 migranti arrestati perché senza documenti di viaggio. La Turchia ne ha formalmente riammessi solo 2.841. Gli altri sono stati semplicemente abbandonati alla frontiera terrestre, respinti in mare o costretti a gettarsi in acqua davanti alle coste turche, come gli otto che annegarono sotto gli occhi della Guardia costiera greca davanti a Karaburun il 26 settembre 2006. Il governo turco parla di 11.993 migranti bloccati dalle guardie di frontiera greche e abbandonati in territorio turco dal 2002, di cui 3.047 solo nel 2006. Tuttavia un recente accordo tra le Guardie costiere dei due Paesi dovrebbe portare ad una maggiore collaborazione per i respingimenti in mare.

Meno 60%. Tanto vale la diminuzione degli arrivi sulle coste spagnole nel 2007. Meno della metà del 2006. Eppure i morti sono ancora troppi. La nostra rassegna stampa parla di 876 morti nel 2007 contro i 1.250 del 2006. Gli ultimi 113 a dicembre, 91 dei quali in un solo giorno, quello stesso maledetto 10 dicembre in cui a Seferihisar, in Turchia, perdevano la vita 79 persone. Quella notte in 50 sono annegati di fronte alle coste del Sahara occidentale, lungo le quali le Forze ausiliarie marocchine hanno smontato i propri avamposti anti-emigrazione in seguito alla crisi con la Spagna dopo la visita del re spagnolo a Ceuta e Melilla, a novembre. Le altre 40 vittime hanno perso la vita molto più a sud, nelle acque senegalesi. La loro piroga era partita dall’isola di Djogué, in Casamance, ed era diretta alle Canarie, con 130 passeggeri a bordo. Quella notte si è arenata a Yoff Tonghor, a Dakar, dopo 12 giorni di navigazione alla deriva, su rotte sempre più lunghe, per evitare i pattugliamenti europei di Frontex nelle acque senegalesi. Nel corso del 2007 oltre 1.500 migranti sono stati fermati nell’Atlantico dalle navi di Frontex, mentre i senegalesi rimpatriati dal 2006 sono oltre 18.000. Il numero degli arrivi alle Canarie è crollato: meno 75% nei primi nove mesi dell’anno. Ma da Dakar si continua a partire. E si continua a morire. Per evitare i pattugliamenti di Frontex si naviga fino a 300 miglia al largo dalle coste africane restando in mare anche 12 giorni con grandissimi rischi. Lo testimonia lo stato di salute dei migranti che arrivano a Las Palmas, sempre più spesso in gravi condizioni di disidratazione e ipotermia proprio per la durata dei viaggi. Lo scorso sei novembre, una delle piroghe venne stata soccorsa a La Güera, al confine tra Mauritania e Sahara occidentale. Vagava alla deriva da tre settimane, dopo un guasto al motore. A bordo c’erano 101 passeggeri. Gli altri 56 che erano partiti con loro da Ziguinchor, in Senegal, venti giorni prima, li avevano gettati in mare dopo che erano morti di stenti. Ed è preoccupante l’escalation delle vittime degli ultimi mesi. 113 morti a dicembre, 200 a ottobre e 119 a novembre. E nessuno può sapere quanti siano i naufragi fantasma, che si consumano in pieno oceano e sfuggono alla stampa, come quello di ottobre, la cui unica eco è stata il funerale collettivo celebrato a Kolda, in Senegal, dalle famiglie degli oltre 150 dispersi in mare.

Portugal. Le rotte si spostano in base ai pattugliamenti. Il 17 dicembre si è aperta la rotta portoghese. 23 cittadini marocchini sono sbarcati a Olhao, nel sud del Portogallo. Mentre più a est, si è ormai affermata la rotta algerina per le isole Baleari, parallela a quella della Sardegna. Nel 2007 gli arrivi sono impennati del 7.000%, passando dagli 8 del 2006 ai 577 dei primi undici mesi di quest’anno. Un dato che non deve essere sfuggito agli esperti di Frontex, che nelle acque dello Stretto di Gibilterra hanno da poco concluso l’operazione Indalo (305 migranti fermati in un mese) e che nel 2008 potranno contare su un budget doppio rispetto al 2007. L’aumento degli sbarchi corrisponde a un maggior numero di arresti in Algeria: 1.500 quest’anno, dei quali 1.485 algerini. E anche i morti aumentano. La guardia costiera algerina ha ripescato 83 cadaveri quest’anno. Lo scorso anno erano stati 73, e nel 2005 soltanto 29. Dalla Tunisia e dal Marocco il passaggio è sempre più difficile e così le rotte algerine sono sempre più inflazionate.

Il patto col diavolo. Che quello di Marcella Lucidi non fosse stato un viaggio di piacere lo si era capito da subito. Ma nessuno si aspettava tempi tanto rapidi. Invece il 29 dicembre, esattamente 40 giorni dopo la missione a Tripoli del sottosegretario, il ministro italiano dell’Interno, Giuliano Amato, è volato in Libia per firmare gli accordi di pattugliamento congiunto con il ministro libico degli esteri. I mezzi italiani opereranno in acque libiche, con equipaggi misti, e i migranti intercettati saranno respinti nei porti del Paese africano, detenuti e rimpatriati. L’accordo prevede anche la fornitura (con un finanziamento Ue) di un sistema di controllo per le frontiere terrestri e marittime libiche, come già richiesto dalle autorità libiche alla missione di Frontex che visitò il paese nel maggio 2007. La direzione e il coordinamento delle attività di pattugliamento e di addestramento saranno affidati ad un Comando operativo interforze, con sede in Libia. Il responsabile sarà libico, mentre il vice comandante sarà designato dal Governo italiano. In caso di necessità il Comando potrà anche richiedere l’intervento dei mezzi italiani schierati a Lampedusa. Per Amato si potranno così “salvare molte vite umane”. Ma sulla questione libica pesano come un macigno le gravissime denunce di Amnesty International, Human rights watch, Afvic e Fortress Europe: 60.000 migranti arrestati e deportati nella Grande Jamahiriyya solo nel 2006, comprese donne e bambini, migranti economici e rifugiati politici. Arrestati durante retate di massa delle forze di polizia libiche, detenuti senza processo per mesi o per anni, in condizioni degradanti, e quindi deportati, anche se rifugiati politici - come i 600 rifugiati eritrei di Misratah, sul cui destino pende ancora la possibilità del rimpatrio - oppure mandati a morire, abbandonati in mezzo al deserto alla frontiera libica meridionale con Niger, Chad, Sudan e Egitto. Per l’ennesima volta, in nome del controllo delle frontiere europee si calpesta sulla pelle di migranti e rifugiati l’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona.

Diritto e pipeline. A chiederlo era stata Amnesty International con una lettera inviata alla Commissione europea e a Palazzo Chigi, il 15 settembre 2007. “La cooperazione con la Libia non può crescere senza reali garanzie sul rispetto dei diritti umani dei migranti che saranno respinti”. Poche settimane dopo, rispettivamente il 4 e il 16 ottobre 2007, tre interrogazioni parlamentari, rivolte al Governo italiano e alla Commissione europea, chiedevano conto della reale situazione di migranti e rifugiati in Libia, allarmati dalle sempre più gravi denunce della società civile. Sono passati tre mesi. L’accordo con la Libia è stato siglato. E alle interrogazioni non è stata data nessuna risposta. L’accordo servirà a respingere verso le coste africane i migranti intercettati. Anche se il 60% dei circa diecimila richiedenti asilo in Italia sono arrivati proprio da quelle coste. Perchè a Lampedusa arrivano i profughi della guerra civile in Somalia, i rifugiati del Darfur, dell’Etiopia, dell’Eritrea, della Palestina, della Liberia e della Sierra Leone. Eppure l'articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vieta le deportazioni collettive, e la riammissione di un cittadino straniero in un Paese terzo dove rischi la tortura, così come lo vieta la Convenzione internazionale contro la tortura dell'Onu, senza parlare della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Convenzione che la Libia non ha mai firmato, sebbene ospiti una missione dell’Acnur, a Tripoli. Ma d’altronde le stesse Nazioni unite cosa possono recriminare alla Libia? Dopotutto la Libia è stata nominata ad ottobre 2007 membro temporaneo fino al 2009 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, organo nel quale per il mese di gennaio 2008 coprirà la presidenza di turno, quando fino al 2003 lo stesso Consiglio di Sicurezza imponeva sanzioni a Tripoli! E Gheddafi è stato recentemente accolto a braccia aperte da Sarkozy e Zapatero, e il suo ministro degli esteri ha recentemente incontrato il segretario di Stato Usa, Condoleeza Rice! Insomma, ancora una volta accordi commerciali, investimenti e forniture di gas in cambio di armi, prevalgono sui diritti delle persone.

Diritto, e rovescio. Lungo le frontiere, sembra terminare anche il confine del diritto. Dopotutto, sebbene in modo illegale, i respingimenti in mare si sono sempre fatti. Fortress Europe li ha denunciati raccogliendo le testimonianze di rifugiati respinti in Tunisia e in Libia. E lo stesso comandante della Guardia di Finanza, Romeo Cavallin, nel 2004 ammetteva allegramente che i respingimenti verso la Tunisia erano una prassi abituale. E se parliamo di pratiche illegali, è perchè fu la Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenuta da una mozione approvata dal Parlamento europeo, che il 10 maggio 2005 condannò l’Italia ordinando la sospensione delle deportazioni collettive da Lampedusa, dopo che oltre 1.500 cittadini stranieri sbarcati sull’isola erano stati rinviati in Libia. Ciò che allora veniva definito illegale dalle più alte istituzioni comunitarie, in nome del diritto internazionale, tre anni dopo è diventato l’obiettivo dichiarato dell’organo comunitario preposto al controllo delle frontiere esterne dell’Ue, Frontex appunto.

Fortezza Europa. E dopotutto non ci si può certo aspettare granché da un’Europa che conta sul suo territorio almeno 224 campi di detenzione per migranti e rifugiati per una capienza totale di oltre 30.000 posti. I dati sono quelli pubblicati da una recente inchiesta dell’International Herald Tribune. La mappa dei campi assomiglia ad un piano militare di difesa. Se in Italia il limite della detenzione è di 60 giorni, e in Francia di 32, in Grecia è di tre mesi, a Malta di un anno e mezzo, mentre in molti altri Stati non è previsto alcun limite. La detenzione amministrativa è prevista in tutta Europa per i migranti privi di un permesso di soggiorno, in attesa della loro identificazione e espulsione, e per i richiedenti asilo politico. Le condizioni di detenzione variano molto tra i diversi campi. Atti di autolesionismo, tentati suicidi accomunano queste vere e proprie frontiere interne dell’Unione europea. L’ultima vittima è un tunisino, classe 1979, che si è impiccato il 30 dicembre 2007 nel campo di detenzione amministrativa di Berlino Koepenick. Ma è una storia lunga. Qualcuno ricorderà i rifugiati iraniani che per protesta si cucirono le labbra, nel 2006, nel campo di Samos. L’ong olandese United ha pubblicato una death list di centinaia di casi simili in tutta Europa. In Italia basterebbe rileggersi “Lager Italiani”, di Marco Rovelli. Partire dai sei morti della strage del cpt Vulpitta a Trapani, nel 1999, e arrivare agli ultimi due suicidi al cpt di Modena, dove il 15 e il 17 ottobre 2007, un algerino e un tunisino si sono tolti la vita. Tante le rivolte, da Bari a Edirne, da Trapani a Parigi. E in Francia, da metà dicembre la rivolta è scoppiata nei campi di Mesnil-Amelot e Vincennes.

La frontiera interna. In un recente dibattito parlamentare sui cpt, la deputata Mercedes Frias ha chiesto al Governo italiano quale risposta si dovesse dare alle madri dei due ragazzi suicidatisi: “I due ragazzi sono morti non per quello che hanno fatto, ma per quello che sono, in quanto, in definitiva, nei CPT non ci si entra per aver commesso dei reati, ma per ciò che si è”. Triste verità. Ancora più triste quando sono i numeri a dimostrare l’inefficienza di un sistema repressivo basato su un approccio ideologico e razzista. Secondo il rapporto della Commissione De Mistura, commissionato dal Ministero dell’Interno, nel 2006 sono transitate nei 16 cpt italiani 22 mila persone, delle quali 8.400 sono state identificate e circa 6.000 espulse, in un Paese, l’Italia, che conta, secondo lo stesso rapporto, oltre 300.000 lavoratori stranieri privi di documenti. È lo stesso Paese che ogni anno attraverso i decreti flussi programma l’ingresso per motivi di lavoro di centinaia di migliaia di persone: 550.000 nel 2006, e altri 170.000 nel 2007 attraverso i recentissimi click days. È il messaggio ambiguo dell’Europa. Da un lato chiede a gran voce manodopera per sopperire all’invecchiamento della popolazione autoctona e al bisogno di manodopera nei settori meno pagati (agricoltura, industria, edilizia, servizi alla persona). Dall’altra respinge alle frontiere rifugiati e migranti, calpestandone i diritti e fabbricando ogni anno migliaia di “clandestini”, cittadini senza cittadinanza, ovvero un esercito di manodopera da sfruttare a basso costo. Quello che costa è invece il sistema di detenzione e rimpatrio. Secondo un rapporto della Corte dei Conti nel 2003 l’Italia ha speso 230 milioni di euro per il contrasto dell’immigrazione, contro soli 102 per l’integrazione. Nei primi nove mesi del 2004 la spesa per la gestione dei Cpt era stata di 30.440.753 euro. Il bilancio 2008 di Frontex è di 30 milioni di euro. E di euro la Spagna ne ha spesi 23,8 milioni per rimpatriare, nel 2006, circa 33.000 migranti.

L'asilo che non c'è. Secondo dati della Commissione europea gli immigrati irregolari nell’Ue sarebbero tra 4,5 e 8 milioni. Diversa la situazione dei rifugiati politici e richiedenti asilo, che continuano a diminuire. Lo dice Eurostat: 192.000 domande d’asilo nei 27 dell’Ue nel 2006, contro le 670.000 domande nel 1992 nei soli 15 Stati membri di allora. Le richieste sono dimezzate negli ultimi 5 anni, nel 2006 il calo è stato del 15%. Tutto questo mentre i rifugiati nel mondo sono aumentati del 14% secondo l’Acnur. Il punto è che in Europa è sempre più difficile arrivare. Non è un caso che le richieste d’asilo si siano spostate lungo le frontiere: Grecia (+116%), Malta (+262%), e Cipro (+378%). Da una parte ci sono i respingimenti dei rifugiati sotto la veste degli accordi di riammissione, come i rifugiati rinviati in Grecia dai porti dell’Adriatico (soltanto a dicembre 22 irakeni da Bari, e 36 irakeni e 17 afgani da Ancona). Dall’altra ci sono le missioni di Frontex.

Frontex e i Mondiali di calcio. Le missioni dell’agenzia comunitaria per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue sono state 22 nel 2007, ed hanno portato all’arresto di 19.295 migranti, di cui 11.476 in mare, 4.522 a terra, e 3.297 negli aeroporti. Mentre nel 2006 il bilancio dell’agenzia di Varsavia si chiudeva con 32.016 arresti. Senza che nessuno se ne sia accorto, Frontex sta pattugliando tutte le frontiere: aeree, marittime e terrestri. Conosciamo e abbiamo scritto delle missioni Nautilus nel Canale di Sicilia, Hera nell’Atlantico, Indalo nello Stretto di Gibilterra e Poseidon nell’Egeo. Ma l’elenco è molto più lungo, ed è contenuto in un esclusivo documento ufficiale di Frontex che abbiamo messo on line. Nell’elenco figura la missione Minerva, nei porti andalusi; Hermes, tra la Sardegna e le Baleari, dirimpetto all’Algeria; Zeus, nei porti tedeschi; Fifa, in Germania nel periodo dei mondiali di calcio 2006; Niris, tra la Germania e i Paesi Scandinavi contro l’immigrazione cinese; e ancora Ariane, tra Germania e Polonia; Gordius, tra Romania, Slovacchia e Ungheria; e poi Herakles in Ungheria e Kras e Drive In in Slovenia; e ancora Ursus in Romania, Slovacchia, Ungheria e Polonia. Mentre per gli Europei del 2008, Frontex sta già preparando la missione Euro Cup 2008 in Austria e Svizzera. Senza parlare delle missioni negli aeroporti di mezza Europa: Amazon, Agelaus, Hydra, Extended Family, Long Stop, Argonauts. Per non parlare dei programmi di formazione, che vanno dai progetti di rimpatrio congiunto, alla ricerca di auto rubate e perfino all’addestramento di cani. E per il 2008 si potrà fare di meglio, dato che il budget di Frontex è stato raddoppiato a 30 milioni di euro.

Alla fiera dell'Est. Tutto questo in un’Europa che guarda sempre più a est. Non dimentichiamocelo. Il 21 dicembre il muro di Schengen si è spostato ad oriente, inglobando Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Ovvero la cintura che separa l’Unione europea da Bielorussa e Ucraina, da dove transitano molti migranti e rifugiati, provenienti dalle ex Repubbliche Sovietiche, dall’Asia e dal Medio Oriente. La frontiera tra Slovacchia e Ucraina è di 97,8 km. L’ingresso nell’area Schengen ha significato la costruzione di un muro virtuale tra i due Paesi. 250 telecamere mobili, visori notturni, Gps, rilevatori di calore, infrarossi, raggi x, e mezzi di pattugliamento fuoristrada. Un sistema costato la bellezza di 50 milioni di euro, finanziati con fondi comunitari, e che ha visto quadruplicare il personale della polizia di frontiera, da 240 unità nel 2004, a 886. Su questa frontiera sono stati fermati 25.539 migranti nel 2004 e 32.756 nel 2005. Il loro destino è la riammissione in Ucraina. Human Rights Watch ha più volte denunciato gli accordi di riammissione tra i Paesi dell’Est Europa e l’Ucraina, esprimendo particolare preoccupazione per i rimpatri dei rifugiati della Cecenia e dell'Uzbekistan. E un recentissimo rapporto del Jesuit Refugee Service denuncia le condizioni dei campi di detenzione nei 10 nuovi Stati Membri dell’Ue. Dall'Ucraina sono stati espulsi 5.000 migranti nel 2004 e 2.346 nella prima metà del 2005, la metà verso ex Repubbliche sovietiche, gli altri verso Cina, India, Pakistan e Bangladesh. Bruxelles conosce questi rapporti, ma con Kiev ha già stretto un accordo di riammissione, firmato a latere del Consiglio di cooperazione Ue-Ucraina il 18 giugno 2007, e che molto presto dovrebbe entrare in vigore.