25 November 2007

Libia: blitz italiano a Tripoli in vista del vertice di Lisbona

ROMA, 25 novembre 2007 – Mancano due settimane al vertice euro-africano di Lisbona. Si discuterà anche di immigrazione irregolare, pattugliamenti congiunti e respingimenti in Libia, con l’obiettivo di promuovere a pieni voti la cooperazione con Tripoli e le deportazioni di massa di migranti e rifugiati dell’africa sub-sahariana. Il negoziato italiano con la Libia non prescinde dalla partita del gas e dei risarcimenti post coloniali. “Un’intesa di principio” è già stata annunciata il 10 novembre 2007 dal ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, che dopo un incontro a Tripoli con il leader libico Mu‘ammar Qaddafi ha annunciato la costruzione di una grande autostrada nella ex colonia per voltare la pagina del passato, in attesa di conoscere il trattamento degli italiani espulsi dalla Libia nel 1970, dopo il colpo di stato. In cambio il leader libico ha offerto a Roma una partnership privilegiata in campo politico ed economico. Un mese prima, il 16 ottobre 2007, Eni aveva siglato un accordo con la compagnia di stato libica National Oil Company (Noc) prevedendo 28 miliardi di dollari di investimenti oltremare in dieci anni, con un’estensione della durata dei diritti di estrazione di gas e petrolio fino al 2047.

Dal vertice di Lisbona, in programma l’8 e 9 dicembre 2007, il commissario europeo Franco Frattini si aspetta “una vera dichiarazione di partenariato sull’immigrazione”. E intanto Marcella Lucidi, sottosegretario del ministero dell’Interno con delega all’immigrazione, è volata a Tripoli. Il 19 novembre 2007, una settimana dopo D’Alema, ha incontrato, assieme all’ambasciatore italiano Francesco Trupiano, le più alte cariche libiche per definire le strategie di contrasto all’immigrazione nei prossimi mesi. Omran Hmeid (segretario della pubblica sicurezza), Abdelati Labidi (segretario delle relazioni con l’Europa), Ali Salah Al-Richi (segretario dell’immigrazione).

L’obiettivo è noto da mesi. Il commissario europeo Franco Frattini non l’ha mai nascosto: pattugliare in modo permanente le acque libiche con le navi europee dell’agenzia Frontex, e respingere verso la costa africana tutte le imbarcazioni fermate, a partire dal 2008. Lo stesso chiedeva la lettera inviata il 25 maggio 2007 dal vice direttore esecutivo di Frontex, Gil Arias, a Rammadan Ahmed Barq, direttore del Dipartimento libico per gli affari con l’Europa. Una lettera segreta, il cui contenuto è stato svelato solo un mese fa, quando Fortress Europe ha messo on line il rapporto segreto della missione di Frontex in Libia. Tuttavia una risposta ufficiale da Tripoli non è ancora arrivata. La Libia chiede più mezzi all’Ue per pattugliare il suo confine meridionale, 4.400 km di deserto. Non sono bastati 1.567.158,27 euro di fondi europei spesi dal ministero dell’Interno italiano nel 2006 in “Across the Sahara”, un progetto di formazione delle forze di polizia libiche e nigerine. Ad ogni modo, a quanto pare, le richieste di Qaddafi saranno presto esaudite. Già lo scorso 18 settembre 2007, il ministro dell’interno Giuliano Amato aveva annunciato: “Abbiamo ottenuto il mandato per andare avanti sulla fornitura di materiale alla Libia per un sistema di sorveglianza elettronica delle sue frontiere sud”.

A niente sono servite le interrogazioni parlamentari sulla Libia, le lettere di Amnesty International, i rapporti di Human Rights Watch e di Fortress Europe. Un mese fa, abbiamo raccolto 83 testimonianze di rifugiati sbarcati in Italia che denunciano retate razziste, arresti arbitrari, detenzioni senza processo in condizioni degradanti, pestaggi e violenze nelle carceri libiche e deportazioni collettive, anche di rifugiati, con migliaia di uomini e donne abbandonati in mezzo al deserto dalle autorità libiche. L’Unione europea ha deciso di chiudere gli occhi. Acnur e Oim si presteranno a dare una copertura umanitaria alle deportazioni di massa. Lo scorso 23 novembre, Oim ha lanciato un appello per raccogliere tre milioni di euro per finanziare, nel 2008, il rimpatrio assistito di 2.000 migranti bloccati in Libia. Finanziata dall’Unione europea e dal Ministero dell’Interno italiano (progetto Trim, fondi Aeneas) per due milioni di euro, dal 2006 l’Oim ha rimpatriato 1.300 migranti dalla Libia in Niger e altri 200 saranno rimpatriati nelle prossime settimane, con un buono di 300 euro a testa. Ottima iniziativa, ma che puzza di complicità con la macchina repressiva euro-libica. L’Oim infatti, pur lavorando in Libia, non spende una sola parola sui diritti calpestati dei migranti. Né lo fa l’Acnur (Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite). 60.000 persone l’anno sono deportate dalla Libia, secondo il rapporto Frontex, dopo essere state arrestate sulla base di una discriminante razziale, in un Paese che non riconosce il diritto d’asilo. In questo momento a Misratah sono ancora detenuti oltre 700 rifugiati politici eritrei. L’Italia ne ha accolti 40 dopo che l’Acnur li aveva riconosciuti come rifugiati. Sono atterrati a Roma lo scorso 8 novembre. Prima di partire, alcuni di loro sono stati intervistati dalla tv Al Jazeera, a Tripoli. Prima però, gli agenti di polizia li hanno minacciati, intimando loro di non raccontare quello che era loro successo durante i dodici mesi di detenzione. Pestaggi, stupri, malnutrizione. Oggi a Misratah sono detenuti ancora 580 uomini, 94 donne, di cui 4 incinte, e 15 bambini. Cosa faranno l’Ue, l’Acnur, l’Oim, per salvare la vita a queste persone? La domanda è stata già formulata da tre interrogazioni parlamentari depositate a Roma e Strasburgo. Ma prima che arrivino le risposte, quei rifugiati potrebbero essere rimpatriati in Eritrea e condannati a morte, in qualità di disertori dell’esercito di un Paese in guerra. Un Paese, l’Eritrea, che nel 2005 ne ha fucilati 161 di disertori, secondo Amnesty International.


In vista del vertice di Lisbona, chiediamo quindi con forza di diffondere il più possibile il nostro rapporto sulla Libia, l’intervista ai detenuti di Zawiyah, il rapporto Frontex, il rapporto di Human Rights Watch, il video “A sud di Lampedusa”, prima che sia troppo tardi.