TERNI, 14 maggio 2009 – Macchi, Smalto e Buonocore. Segnatevi questi tre nomi. Sono i nomi delle tre motovedette della Guardia di Finanza partite questa mattina alla volta di Tripoli dal porto di Gaeta, dopo due settimane di esercitazioni con 41 ufficiali della Marina militare libica a bordo. Si tratta di navi di 90 tonnellate e 27 metri di lunghezza, capaci di raggiungere i 43 nodi di velocità e di navigare in alto mare. Presto saranno affiancate da altre tre unità. Consegnate alla Marina libica, serviranno a riportare a Tripoli tutti gli emigranti e i rifugiati intercettati in mare. La missione, di durata triennale, farà base a Zuwarah, dove sono già stati inviati dieci ufficiali italiani per la manutenzione dei mezzi, mentre alcuni ufficiali libici saranno distaccati presso la Sala operativa della Guardia di Finanza a Lampedusa. Il comandante della Gdf, Cosimo D'Arrigo, assicura che le operazioni saranno svolte sempre “nel pieno rispetto delle leggi e del diritto comunitario e internazionale”. Peccato che proprio in nome del diritto internazionale le espulsioni collettive in Libia vennero condannate nel 2005 dal Parlamento Europeo e dalla Corte Europea per i diritti umani.
Le espulsioni, si sosteneva, violavano il diritto d'asilo, e il divieto di respingimenti collettivi e verso paesi a rischio tortura. Ed è in nome di quelle norme internazionali che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur), il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Hammarberg, la società civile (Asgi, Cir, Arci, Save the Children, Centro Astalli, Caritas, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, Migreurop, Remdh e molti altri...), e addirittura il Vaticano, si sono schierati contro i respingimenti. Purtroppo però senza sostegno alcuno da parte dell'Unione europea. Il vice presidente della Commissione europea, Jacques Barrot ha infatti fatto sapere che i respingimenti in mare sono una prassi “usuale” dell'Europa. Il Parlamento europeo sembra già in campagna elettorale, e non è riuscito ad andare oltre la richiesta di spiegazioni "urgenti" inviata a Barrot dal presidente della commissione Libertà pubbliche, Gerard Deprez. E comunque, c'è poco da aspettarsi da un Partito Democratico che – per bocca di Fassino – sostiene la legittimità dei respingimenti. Per quanto riguarda la Corte Europea staremo a vedere. I potenziali ricorrenti – ovvero i respinti in Libia – sono chiusi in carcere senza nessun accesso a un avvocato. Tuttavia l'avvocato Anton Giulio Lana, membro del Direttivo dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, organizzazione che è tra i fondatori del Cir, ha annunciato di aver raccolto 24 procure proprio tra i respinti, e che presenterà presto ricorso alla Corte di Strasburgo.
Intanto sono già 557 gli emigranti riportati in Libia tra il 7 e il 10 maggio scorsi. Dopo il primo gruppo di 227 respinti il 7 maggio, altri 77 sono stati ricondotti a Tripoli da un rimorchiatore della piattaforma dell'Eni l'otto maggio, e altri 213 sono stati respinti domenica scorsa. La maggior parte sono cittadini della Nigeria, e in misura minore del Mali, Costa d'Avorio, Ghana, Bangladesh, Marocco e Tunisia. Le donne sarebbero 89, di cui tre incinte, e i bambini due. Almeno una ventina sarebbero i potenziali rifugiati politici di nazionalità somala ed eritrea. Le donne sono state portate nella sezione femminile del campo di detenzione di Zawiyah, a ovest di Tripoli, seguite dai rispettivi mariti, come richiesto esplicitamente alle autorità libiche dall'Oim. Mentre una signora è stata ricoverata all'ospedale di Tripoli. Gli uomini invece sono detenuti in parte a El Qwaa e in parte a Tuaisha, a sud di Tripoli. L'inviato de La Stampa, Guido Ruotolo, ha potuto visitare il centro a Tuaisha, ancora in costruzione. Sostituisce il vecchio e famigerato carcere di Fellah, demolito per fare spazio a uno dei cantieri edilizi del restyling di Tripoli. Le fotografie mostrano la bontà delle strutture. Ma allo stesso tempo nascondono le condizioni indegne in cui gli emigranti sono rinchiusi negli altri campi di detenzione, le cui porte non vengono aperte alla stampa straniera.
Ma non sono soltanto gli intonaci di Tuaisha ad essere nuovi. L'intero sistema è in rapida evoluzione. La Libia ha accettato i fondi italiani e europei per i nuovi campi e per i voli di rimpatrio. Non solo. Per la prima volta, le autorità libiche hanno autorizzato la presenza sul molo dell'Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e dell'Acnur – che in Libia sono presenti da diversi anni - e del Cir (Consiglio italiano rifugiati) che a fine maggio avvierà a Tripoli un progetto di ricerca. A questi soggetti, potrebbe presto aggiungersi la Mezza Luna Rossa Libica (l'equivalente della nostra Croce Rossa) per prestare assistenza medica sul molo. L'esternalizzazione del controllo della frontiere è già reale. E il prossimo passo sembra essere l'esternalizzazione del diritto d'asilo.
L'ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur l'ha detto chiaramente: la Libia sta valutando se firmare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Sarebbe il primo passo verso l'esternalizzazione. Giorni fa l'Acnur aveva chiesto all'Italia di riprendersi i rifugiati respinti in Libia. E il presidente della Camera Gianfranco Fini aveva sostenuto l'idea di identificare i rifugiati in appositi centri in Libia. Un'idea che non sembra dispiacere nemmeno a Maroni, che però rilancia a livello europeo: “voglio definire i meccanismi – ha detto - perché si riconosca direttamente in Libia il diritto d'asilo e che poi sia tutta l'Unione europea a farsene carico”. Ovvero che sia tutta l'Unione europea a partecipare a progetti di resettlement, cioè di accoglienza in Europa dei rifugiati riconosciuti in Libia, un po' come sperimentato nel 2008 a Misratah. Una proposta di cui discuterà venerdì 14 maggio a Roma con la rappresentante in Italia dell'Acnur, Laurence Jolles. Un risultato importante ma insufficiente. E pericoloso.
Da un lato è apprezzabile l'apertura di un corridoio umanitario per i rifugiati, che fino ad oggi sono costretti a rischiare la vita in mare per poter chiedere asilo in Europa. Dall'altro è deprecabile l'ipotesi che l'attesa del riconoscimento della domanda d'asilo debba protrarsi per anni, in centri di detenzione, in condizioni indegne. E con uno standard di protezione più basso di quello europeo. Intanto proprio da Misratah arriva una importante notizia. Nel mese di marzo, circa 200 dei 700 eritrei detenuti da tre anni, sono stati rimessi in libertà dopo essere stati riconosciuti rifugiati dall'Acnur di Tripoli. Un risultato importante, perché segna un precedente. Eppure insufficiente, perché ognuno di loro adesso rischia di essere di nuovo arrestato nelle retate a Tripoli, oppure in mare, magari durante i respingimenti. Eppure, l'Alto commissario Guterres era stato chiaro: il diritto d'asilo vale anche in acque internazionali. Al punto che l'Asgi sostiene che i comandanti delle nostre motovedette sarebbero obbligati ad accettare in mare le richieste d'asilo e a portare i profughi sul territorio italiano. Del resto, che la questione dell'esternalizzazione dell'asilo non sia una questione marginale, lo dicono i dati del Viminale: il 75% dei 36.952 arrivati via mare in Italia nel 2008 ha chiesto asilo politico. E il 50% ha ottenuto un permesso di asilo o di protezione internazionale. Basterà accogliere in Italia e nell'Unione europea un centinaio di quei rifugiati attraverso i progetti di resettlement, per avere la coscienza a posto?
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La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Vedo 30 persone. Sul muro hanno scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa
Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
Stipati come animali, dentro container di ferro. Così gli immigrati arrestati in Libia vengono smistati nei centri di detenzione nel deserto libico, in attesa di essere deportati. Siamo i primi giornalisti autorizzati a vederli. Le condizioni dei centri sono inumane. I funzionari italiani e europei lo sanno bene, visto che li hanno visitati. Ma si astengono da ogni critica, alla vigilia dell'avvio dei pattugliamenti congiunti
Reportage dalla Libia: siamo entrati a Misratah
Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono 600 richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli
E poi le nostre inchieste:
Libia: arrestati i superstiti del naufragio, sono a Tuaisha
“Così le navi di Frontex ci respinsero in Libia”
Dall'Unione europea 20 milioni alla Libia contro l'immigrazione
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Per testimonianze audio potete scaricare questo file
Libia: esclusiva intervista con i rifugiati detenuti a Zawiyah
Per testimonianze video c'è il documentario Come un uomo sulla terra, di Segre, Biadene e Yimer
E poi c'è il nostro rapporto FUGA DA TRIPOLI, del 2007, ricco di materiale e testimonianze dirette dei rifugiati
E la nostra esclusiva MAPPA dei campi di detenzione in Libia
Le espulsioni, si sosteneva, violavano il diritto d'asilo, e il divieto di respingimenti collettivi e verso paesi a rischio tortura. Ed è in nome di quelle norme internazionali che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur), il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Hammarberg, la società civile (Asgi, Cir, Arci, Save the Children, Centro Astalli, Caritas, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, Migreurop, Remdh e molti altri...), e addirittura il Vaticano, si sono schierati contro i respingimenti. Purtroppo però senza sostegno alcuno da parte dell'Unione europea. Il vice presidente della Commissione europea, Jacques Barrot ha infatti fatto sapere che i respingimenti in mare sono una prassi “usuale” dell'Europa. Il Parlamento europeo sembra già in campagna elettorale, e non è riuscito ad andare oltre la richiesta di spiegazioni "urgenti" inviata a Barrot dal presidente della commissione Libertà pubbliche, Gerard Deprez. E comunque, c'è poco da aspettarsi da un Partito Democratico che – per bocca di Fassino – sostiene la legittimità dei respingimenti. Per quanto riguarda la Corte Europea staremo a vedere. I potenziali ricorrenti – ovvero i respinti in Libia – sono chiusi in carcere senza nessun accesso a un avvocato. Tuttavia l'avvocato Anton Giulio Lana, membro del Direttivo dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, organizzazione che è tra i fondatori del Cir, ha annunciato di aver raccolto 24 procure proprio tra i respinti, e che presenterà presto ricorso alla Corte di Strasburgo.
Intanto sono già 557 gli emigranti riportati in Libia tra il 7 e il 10 maggio scorsi. Dopo il primo gruppo di 227 respinti il 7 maggio, altri 77 sono stati ricondotti a Tripoli da un rimorchiatore della piattaforma dell'Eni l'otto maggio, e altri 213 sono stati respinti domenica scorsa. La maggior parte sono cittadini della Nigeria, e in misura minore del Mali, Costa d'Avorio, Ghana, Bangladesh, Marocco e Tunisia. Le donne sarebbero 89, di cui tre incinte, e i bambini due. Almeno una ventina sarebbero i potenziali rifugiati politici di nazionalità somala ed eritrea. Le donne sono state portate nella sezione femminile del campo di detenzione di Zawiyah, a ovest di Tripoli, seguite dai rispettivi mariti, come richiesto esplicitamente alle autorità libiche dall'Oim. Mentre una signora è stata ricoverata all'ospedale di Tripoli. Gli uomini invece sono detenuti in parte a El Qwaa e in parte a Tuaisha, a sud di Tripoli. L'inviato de La Stampa, Guido Ruotolo, ha potuto visitare il centro a Tuaisha, ancora in costruzione. Sostituisce il vecchio e famigerato carcere di Fellah, demolito per fare spazio a uno dei cantieri edilizi del restyling di Tripoli. Le fotografie mostrano la bontà delle strutture. Ma allo stesso tempo nascondono le condizioni indegne in cui gli emigranti sono rinchiusi negli altri campi di detenzione, le cui porte non vengono aperte alla stampa straniera.
Ma non sono soltanto gli intonaci di Tuaisha ad essere nuovi. L'intero sistema è in rapida evoluzione. La Libia ha accettato i fondi italiani e europei per i nuovi campi e per i voli di rimpatrio. Non solo. Per la prima volta, le autorità libiche hanno autorizzato la presenza sul molo dell'Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e dell'Acnur – che in Libia sono presenti da diversi anni - e del Cir (Consiglio italiano rifugiati) che a fine maggio avvierà a Tripoli un progetto di ricerca. A questi soggetti, potrebbe presto aggiungersi la Mezza Luna Rossa Libica (l'equivalente della nostra Croce Rossa) per prestare assistenza medica sul molo. L'esternalizzazione del controllo della frontiere è già reale. E il prossimo passo sembra essere l'esternalizzazione del diritto d'asilo.
L'ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur l'ha detto chiaramente: la Libia sta valutando se firmare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Sarebbe il primo passo verso l'esternalizzazione. Giorni fa l'Acnur aveva chiesto all'Italia di riprendersi i rifugiati respinti in Libia. E il presidente della Camera Gianfranco Fini aveva sostenuto l'idea di identificare i rifugiati in appositi centri in Libia. Un'idea che non sembra dispiacere nemmeno a Maroni, che però rilancia a livello europeo: “voglio definire i meccanismi – ha detto - perché si riconosca direttamente in Libia il diritto d'asilo e che poi sia tutta l'Unione europea a farsene carico”. Ovvero che sia tutta l'Unione europea a partecipare a progetti di resettlement, cioè di accoglienza in Europa dei rifugiati riconosciuti in Libia, un po' come sperimentato nel 2008 a Misratah. Una proposta di cui discuterà venerdì 14 maggio a Roma con la rappresentante in Italia dell'Acnur, Laurence Jolles. Un risultato importante ma insufficiente. E pericoloso.
Da un lato è apprezzabile l'apertura di un corridoio umanitario per i rifugiati, che fino ad oggi sono costretti a rischiare la vita in mare per poter chiedere asilo in Europa. Dall'altro è deprecabile l'ipotesi che l'attesa del riconoscimento della domanda d'asilo debba protrarsi per anni, in centri di detenzione, in condizioni indegne. E con uno standard di protezione più basso di quello europeo. Intanto proprio da Misratah arriva una importante notizia. Nel mese di marzo, circa 200 dei 700 eritrei detenuti da tre anni, sono stati rimessi in libertà dopo essere stati riconosciuti rifugiati dall'Acnur di Tripoli. Un risultato importante, perché segna un precedente. Eppure insufficiente, perché ognuno di loro adesso rischia di essere di nuovo arrestato nelle retate a Tripoli, oppure in mare, magari durante i respingimenti. Eppure, l'Alto commissario Guterres era stato chiaro: il diritto d'asilo vale anche in acque internazionali. Al punto che l'Asgi sostiene che i comandanti delle nostre motovedette sarebbero obbligati ad accettare in mare le richieste d'asilo e a portare i profughi sul territorio italiano. Del resto, che la questione dell'esternalizzazione dell'asilo non sia una questione marginale, lo dicono i dati del Viminale: il 75% dei 36.952 arrivati via mare in Italia nel 2008 ha chiesto asilo politico. E il 50% ha ottenuto un permesso di asilo o di protezione internazionale. Basterà accogliere in Italia e nell'Unione europea un centinaio di quei rifugiati attraverso i progetti di resettlement, per avere la coscienza a posto?
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Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono 600 richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli
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