ROMA, 25 novembre 2007 – Sono 763 i migranti marocchini detenuti nelle carceri libiche. La denuncia è dell’ong marocchina “Associazione degli amici e delle famiglie delle vittime dell’immigrazione clandestina” (Afvic). Il presidente Khalil Jemmah, sulla base delle testimonianze raccolte tra gli ex detenuti rimpatriati in Marocco, denuncia il sequestro dei beni degli arrestati e accusa gli agenti della polizia libica di stupri e torture.
Mehdi Raja‘a Allah, 31 anni, della città di Khouribga, è stato arrestato nel marzo 2005 all’aeroporto di Tripoli, appena atterrato. Loubna Bernichi, di Maroc Hebdo, ha raccolto la sua storia. La polizia gli ha sequestrato il passaporto e l’ha condotto nel carcere di El Fellah, a Tripoli, dove ha passato due mesi e mezzo. “Eravamo in centinaia, di diverse nazionalità – racconta – stipati in piccole celle, celle che potevano contenere venti persone al massimo. Avevo paura di morire soffocato. Eravamo alla mercé dell’umore delle guardie. Se uno di loro si era svegliato male, si sfogava su uno di noi. I libici – continua Mehdi – sono eccellenti in materia di torture. Ricordo quando strapparono le unghie dagli alluci di certi detenuti. Era orribile. Senza parlare delle donne stuprate e delle continue percosse”.
Kamal Ghalfi ha una storia simile. Classe 1986, di Casablanca, era arrivato a Tripoli, in aereo, nel febbraio 2006. In un’intervista a Loubna Bernichi, Kamal racconta di centinaia di uomini e donne, di tutte le nazionalità, raccolti in un rudere vicino alla città di Zuwarah: “C’erano marocchini, tunisini, egiziani, maliani. La maggior parte aspettavano d’imbarcarsi da settimane, in condizioni drammatiche”. Due giorni dopo il suo arrivo, all’una di notte, Kamal è caricato con gli altri su dei camion che li conducono a una spiaggia isolata, vicino Zuwarah. Ma la nave, stracarica, si è rovesciata poco dopo, prendendo il largo. Kamal è tra i sopravvissuti. Senza passare davanti a nessun giudice, viene detenuto a El Fellah, a Tripoli, per 21 giorni. “Dopo una magra colazione, ci costringevano ai lavori forzati. Se qualcuno protestava, lo picchiavano finché non perdeva i sensi. Altre volte invece, le guardie ci costringevano a rimanere in piedi ore e ore, sotto il sole di mezzogiorno”.
Mehdi e Kamal, almeno hanno avuto la fortuna di ritornare vivi. Mohamed Aydouni no. Atterrato in Libia nel 2004, alla volta dell’Italia, all’età di 29 anni, da allora i genitori non hanno più sue notizie. Dopo tre anni di inutili ricerche, è stato ufficialmente dichiarato morto. Fatima Sa‘adi invece non ha più notizie del fratello, Mohamed, disperso dall’agosto 2006. E la famiglia di ‘Abderrahim Khettab, 28 anni, di Settat, ha perso le tracce del figlio dal suo arrivo a Tripoli, il 17 agosto 2006. Decine di giovani marocchini sono nella stessa situazioni. Le famiglie hanno bussato a tutte le porte, dalle associazioni marocchine a quelle internazionali, senza però ottenere niente. Nezra Chekrouni, ex ministro dei marocchini residenti all’estero, a dichiarato che il Marocco è pronto a rimpatriare i suoi migranti in Libia, ma lamenta la scarsa collaborazione di Tripoli, accusata di non dare sempre le liste dei detenuti al Consolato. Intanto, in risposta alle dichiarazioni di Afvic trasmesse da Al Jazeera, le autorità libiche ha passato in giudizio la maggior parte dei migranti marocchini, che sono stati condannati a pene da 3 a 4 anni. Nessuno però, a livello internazionale, sembra preoccuparsi della loro sorte.