TRIPOLI, 19 dicembre 2008 – Aeroporto internazionale di Tripoli. Il volo per Niamey parte alle 20:00. Ai banchi del check-in, un ragazzo con la pettorina blu della Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) aiuta alcuni passeggeri a imbarcare pesanti valigie. Sono 30 nigerini che partecipano al programma di rimpatrio volontario assistito. Il volo è effettuato da un aereo di linea della compagnia libica Afriqiyah. Prezzo del biglietto 604 dinari, circa 350 euro. Viaggio di solo ritorno. Paga l’Unione europea. Il loro progetto migratorio è fallito. E le retate della polizia in giro fanno paura un po’ a tutti. Tanto vale tornare. E allora meglio farlo su un volo gratuito e con un vestito elegante. E non scortati dalla polizia dopo mesi di carcere. Nessuno di loro immagina che sulla pista di quello stesso aeroporto, ogni mese atterrano aerei carichi di migliaia di lavoratori che la stessa Libia, nuovo gendarme dell’Unione europea, si sta andando a cercare in Bangladesh, Filippine e Sri Lanka. Si parla di 500.000 immigrati in arrivo. Come dire che con una mano si cacciano in malo modo quelli che all’epoca del panafricanismo erano i fratelli africani, e con l’altra si invitano altri lavoratori stranieri per rimpiazzarli.
“Siamo venuti in Libia per cercare dei soldi, non possiamo restare a braccia incrociate”. Boubakar è uno dei 30 nigerini in partenza per Niamey. È entrato in Libia per la via del deserto, quattro anni fa. Da allora ha lavorato come tuttofare in un negozio a Tripoli. Per 250 dinari al mese, l’equivalente di 150 euro. Troppo poco. “La vita è cara qui – ci spiega –. Avrei voluto arrivare in Europa, ma non si riesce a mettere niente da parte”. Anche Said voleva tentare la traversata. Ma non è riuscito a mettere da parte i soldi. “Guarda questi uomini – ci dice indicando il gruppo di nigerini seduti sulle sedie di plastica in attesa di passare i controlli di sicurezza –, sono tutti scoraggiati. Quello che succede in Libia non è buono. Prendi l’ultima retata che hanno fatto a ‘Ain Zarah due mesi fa. La polizia è entrata nelle nostre case. Hanno arrestato dei nigerini. E poi sono ritornati a frugare nei loro bagagli per portare via tutti gli oggetti di valore. Abbiamo avuto troppi problemi con la polizia in questo paese!”.
Said ha deciso di rientrare in patria. Molti dei suoi connazionali sono stati arrestati e portati nel centro di detenzione di Sebha. Non vuole fare la stessa fine. Indossa un abito elegante di qualche sotto marca cinese. Preferisce ritornare così a casa. Da sconfitto, ma con stile. Non con la barba lunga, i vestiti malconci e magari la scabbia, dopo mesi di detenzione in qualche carcere libico. Prima dei controlli di sicurezza, un funzionario dell’aeroporto solleva da terra i bagagli a mano dei passeggeri in fila. Uno a uno. Quelli che a occhio e croce superano i cinque chili, vengono messi da parte. Non possono essere imbarcati. Qualcuno insiste che non intende abbandonare così il suo bagaglio. Lui alza la voce seccato. Una donna trattiene le lacrime dopo aver ripetutamente provato a riprendersi la sua borsa. Alla fine rimangono abbandonate nell’atrio 17 valigie, un lettore dvd e due casse amplificatrici. Se dentro c’erano i sacrifici di una vita, i regali per i parenti, o degli oggetti di valore, poco importa. Ai familiari a Niamey racconteranno che la polizia libica gli ha sequestrato tutto. E proveranno a superare l’onta dell’emigrato perdente, che dopo aver bruciato i risparmi della famiglia per partire, ritorna a casa a mani vuote. Ai più intraprendenti, l’ufficio in Niger dell’Oim sborserà dai 200 ai 500 euro. Serviranno a comprarsi una macchina da cucire, la licenza di un taxi, o comunque una carta da giocarsi per ricominciare una attività economica in loco.
Dal 2006, anno di apertura della missione in Libia, l’Oim ha assistito il rimpatrio volontario di 2.850 persone in 22 paesi, in Africa e Asia, con il progetto Trim, finanziato per 2.700.000 euro dai fondi europei Aeneas. A fornirci i dati è Laurence Hart, ex capo missione dell’Oim a Tunisi, e dal 2005 responsabile dell’ufficio di Tripoli. Ci riceve nel suo ufficio a Hay Andalus. “Da Tripoli potremmo fare anche 600 rimpatri assistiti al mese. Senza contare le richieste che ci arrivano da Sebha e che non riusciamo a soddisfare”. Dal 2009 sarà attivo un nuovo programma, LIMO, sempre con fondi europei, che l’Oim svilupperà in Libia e Marocco. Gli chiedo dei rimpatri dai campi di detenzione. Risponde che in questo l’Oim non c’entra niente. I migranti che decidono di tornare, si rivolgono personalmente al loro ufficio, tramite il passaparola o le rispettive ambasciate. Altre volte sono le associazioni a chiedere l’intervento dell’Oim. Realtà come la Caritas, la Union Churches, e le associazioni libiche Watassimu, Al-Wafa e Iopcr. Dei quasi tremila rimpatri assistiti, poco più di 50 riguardavano migranti prigionieri nei campi di detenzione. Casi vulnerabili, segnalati dalle associazioni o dai direttori dei centri, tra cui una ventina di ragazze nigeriane, sempre con il loro consenso e mai verso paesi a rischio, sottolinea Hart.
Lucien è uno dei migranti bloccati in Libia che si è rivolto all’Oim per rimpatriare. Lo incontriamo a Janzur, subito fuori Tripoli, nel centro di accoglienza inaugurato a marzo 2008 dall’Oim. È partito tre mesi fa, dal Senegal. Voleva andare in Europa. Ma si è scoraggiato. “I libici sono razzisti con noi neri - dice – e ci sfruttano sul lavoro”. Una giornata di dodici ore viene pagata intorno ai 15 dinari, circa 10 euro. Ma si lavora quando capita. Ogni mattina alle otto, i marciapiedi sotto i cavalcavia di Shara ‘Ashara si riempiono di immigrati africani in attesa dei caporali o comunque di qualche libico che abbia bisogno di un operaio alla giornata. E non sempre è detto che ti paghino a fine giornata… Senza lavoro, nemmeno le condizioni di vita sono dignitose. Lucien vive in un palazzo abitato da guineani e senegalesi. Paga 20 dinari al mese (12 euro), ma nella camera sono in 25.
Eppure, come accade in Italia, se con una mano la Libia rastrella le periferie di Tripoli alla caccia degli immigrati africani, con l’altra chiede l’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori da paesi come le Filippine , lo Sri Lanka e il Bangladesh. L’accordo con il Bangladesh è stato firmato lo scorso 31 ottobre. L’obiettivo dichiarato dal segretario del ministero del lavoro Maa'touk Mohammad, è l’ingresso di 500.000 lavoratori specializzati nelle costruzioni. Diciassette volte i 30.000 africani che nel 2007 la Libia ha arrestato e deportato. Si aggiungeranno ai 25.000 bangladeshi che già vivono e lavorano in Libia. Soltanto nel mese di ottobre, l’ambasciata libica a Dhaka ha già rilasciato 6.000 visti. Serviranno a realizzare il grande piano di ammodernamento recentemente lanciato dal governo libico con un fondo di 130 miliardi di dollari. L’economia del paese, dopo la fine dell’embargo nel 2004, è in piena espansione. La stessa Tripoli è divenuta un cantiere a cielo aperto. In programma ci sono la costruzione di 300.000 unità abitative, 27 complessi universitari e 10.000 km di nuove strade.
Fatto salvo il valore del lavoro dell’Oim a Tripoli - che permette ai migranti senza documenti bloccati in Libia di ritornare dignitosamente a casa e di reintegrarsi -, quanto è grande la contraddizione del sistema repressivo libico – sostenuto e finanziato dall’Unione europea – che per ogni immigrato africano che arresta e deporta, chiede l’ingresso di altri dieci dall'Asia?
Per approfondimenti
Assisted voluntary return from Libya, statistics Iom Libya 2007
Migrants stories. Persons assisted in their return towards home, Iom Libya 2007