OUAGADOUGOU, 7 marzo 2009 – Respinti in acque internazionali, al largo di Lampedusa, dalle navi di Frontex. Torturati nelle carceri libiche. E abbandonati in mezzo al deserto nigerino. È la storia recente di tre cittadini liberiani. Li ho incontrati in Burkina Faso, a Ouagadougou, a margine del festival del cinema africano, insieme ad Andrea Segre, autore del documentario Come un uomo sulla terra. Alla vigilia dell'avvio dei pattugliamenti congiunti italo libici, che affideranno alla polizia libica tutti i migranti fermati in mare, la loro testimonianza svela che cosa stia realmente accadendo in Libia.
Partiti dalla Liberia in guerra nel 1995, quando ancora erano degli adolescenti, Daniel, Yosif e Abenido hanno impiegato sette anni per arrivare in Libia. Dopo un lungo viaggio attraverso la Costa d'Avorio, il Ghana, e il deserto del Niger. Ci raccontano il loro viaggio davanti allo schermo del portatile che mostra il documentario “A sud di Lampedusa”. Daniel e Yosif sono fratelli. Quando scoppiò la guerra, il fronte li separò dalla madre, che oggi vive negli Stati Uniti, a Philadelphia. Ci raccontano il loro viaggio mentre guardiamo insieme le immagini di “A sud di Lampedusa”, girato in Niger. Riconoscono le immagini di Dirkou, dove passarono la frontiera libica nel lontano 2002. “Mi sento come se fossi ancora nel camion. Era una lotta stare lassù. Un continuo spingersi per avere uno spazio più sicuro. Io viaggiavo qui davanti – racconta Yosif indicando uno dei camion che scorrono sullo schermo – Qui, sopra la cabina del conducente. Era dura perché avevo il vento e la sabbia in faccia, ma ero un po’ più comodo. Ma quanto freddo ho preso nel deserto. La notte è terribile. Si gela. E non avevamo le coperte. Ho ancora male ai polmoni, quando tossisco.” Suo fratello si dondola sulla sedia. Ha gli occhi rossi, ogni tanto si addormenta. La notte prima ha mangiato dei fagioli andati a male e per tutta la notte non è riuscito a dormire per il mal di stomaco.
Da Zuwarah riuscirono a imbarcarsi soltanto nell'ottobre del 2008, dopo cinque anni trascorsi tra Sebha, Bengasi e Tripoli per guadagnare gli 800 euro necessari per partire. Al timone sedeva un egiziano. A bordo erano una trentina. Tra cui tre donne (una eritrea, una nigeriana e una ghanese). C'erano marocchini, tunisini, egiziani, ghanesi, maliani e eritrei. Dopo tre giorni di mare, al calare del sole incontrarono una nave di pattuglia. Li presero a bordo. Ma alle prime luci dell'alba furono consegnati ad una motovedetta libica, che dopo due giorni di viaggio li sbarcò al porto di Zuwarah, in Libia. I tre sostengono che fosse una nave italiana. Ma non hanno visto la bandiera. Ad ogni modo era una delle navi della missione di Frontex, Nautilus III, all'epoca ancora operativa nel Canale di Sicilia. Nessuno dei passeggeri venne identificato prima della consegna ai libici. E a nessuno venne chiesto se intendeva chiedere asilo politico. Tecnicamente si tratta di un respingimento collettivo, proibito dalla Convenzione europea dei diritti umani, dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e dalla Convenzione contro la tortura. Già perché è risaputo che il trattamento riservato ai migranti nelle carceri libiche è inumano.
“Ci portarono al commissariato bendati – racconta Yosif -, poi la sera ci portarono in un campo di detenzione. Non c'era neanche lo spazio per sedersi a terra. Siamo rimasti lì per tre notti. Ogni notte ci prendevano uno a uno e ci portavano nel cortile. Ci picchiavano, ci bastonavano. Era una continua tortura. Volevano sapere i nomi degli intermediari a cui avevamo pagato il viaggio”. Al quarto giorno vennero trasferiti a Tripoli, stipati dentro un camion, per essere scaricati nel carcere di Janzur, dove rimasero due lunghissimi mesi. Della loro situazione erano informate le Nazioni Unite. I tre infatti avevano fatto richiesta di asilo politico all'Alto commissariato dei rifugiati in Libia. E dal carcere erano riusciti ad informare un funzionario, che gli rese visita promettendo loro che li avrebbero fatti uscire. Pochi giorni dopo però, all'alba, caricarono anche loro sul camion diretto a Sebha, alle porte del Sahara. “Gridavano “Barra! Barra!” Fuori! E ci spingevano con i manganelli. Eravamo in 150 pigiati uno contro l'altro”.
A Sebha, dopo un mese di carcere furono finalmente riaccompagnati alla frontiera. Di nuovo stipati dentro un container di ferro trainato da un autorimorchio fino alla frontiera con il Niger, tra Tumu e Madama. Tre giorni di viaggio. “I momenti peggiori erano quando gli autisti si fermavano nelle ore più calde per riposare. Il container diventava un forno, non avevamo da bere!”. Ad aspettarli non c'erano però gli agenti della dogana nigerina. Non c'era niente e nessuno. Solo il deserto. E qualche sagoma all'orizzonte. I libici avevano detto di marciare in quella direzione. I 150 si sparpagliarono. Dopo tre giorni di cammino sotto il sole cocente, Daniel perse le forze. Respirava a malapena. Era disidratato. I due compagni lo trascinavano di peso. Si erano persi. Sarebbero morti di sicuro, se non fossero stati visti da un pastore tuareg, che passava in quelle zone con i suoi cammelli. Li portò all'oasi di Dirkou. E li ospitò finché non si rimisero in forza.
Oggi vivono a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Abemido fa il barbiere e guadagna qualche franco per il cibo. Dormono per strada. Qua li ha portati un camion carico di cipolle, partito da Niamey. Vogliono tornare a casa. Li aiuterà la madre, rifugiata politica negli Stati Uniti. Come loro sono migliaia i giovani bloccati lungo le frontiere degli stati nordafricani. Respinti nel deserto dopo essere stati fermati in mare alla frontiera della Fortezza Europa. Quante siano le vittime non lo sapremo mai. Non lo sanno nemmeno loro. I tre liberiani. Dei 150 deportati nel deserto, ne hanno rivisti solo qualche decina nell'oasi di Dirkou. E gli altri? Che fine hanno fatto? E soprattutto, chi dobbiamo considerare responsabile della loro morte?