Salah e Nathalie davanti al Cie di Chinisia, foto di Alessio Genovese
“Mi chiamo Nathalie. Sono francese. E mio marito Salah è uno dei vostri invasori. È detenuto a Lampedusa, quest'isola di cui fino ad oggi non conoscevo nemmeno l'esistenza. Siamo legalmente sposati. Ci teniamo in contatto per sms. Gli dico di restare calmo. Mentre scrivo queste righe, mio marito aspetta ancora, come un condannato a morte, che qualcuno decida sulla sua sorte. E io mi chiedo quale sarà il suo avvenire, e il mio, e il nostro?”
Nathalie ha scritto questa lettera di pugno, lo scorso 20 giugno. E me l'ha spedita per mail. Poi ha spento il computer, ha fatto la valigia ed è corsa all'aeroporto di Parigi a prendere il volo per Palermo. La sera prima aveva parlato al telefono con Sakina, un'altra donna francese, un'altra che a Lampedusa aveva il marito, Khayri. Il caso ha voluto che Khairy e Salah abbiano viaggiato sulla stessa barca partita da Zarzis il 13 maggio e arrivata sull'isola il 14. È stato il marito di Sakiné, Khiary, a raccogliere tra i reclusi del cie di Chinisia i numeri di telefono di mogli e parenti in Europa.
Il risultato è una lista di 26 numeri di telefono. Italia, Francia, Olanda, Danimarca, Germania. Il numero di Nathalie era in quella lista. Sakiné l'ha chiamata per prima. Perché era francese e perché era moglie. E al telefono hanno pianto insieme, senza mai essersi conosciute prima, sulla sorte dei loro mariti. Quando Nathalie ha riagganciato, dentro di sé aveva già deciso che sarebbe partita. L'indomani mattina ha comprato il biglietto online, ha chiamato in ufficio prendendosi una settimana di ferie, ha scritto la lettera e è partita.
Ad aspettarla c'è una buona notizia. Salah, suo marito, è stato rimesso in libertà. Motivi di salute, ha bisogno di un sostegno psicologico che nel cie di Chinisia non sono in grado di dargli. Da oggi è stato trasferito nel centro di accoglienza di Salina Grande, sempre a Trapani. Un centro aperto, camere semplici ma dignitose. Una doccia, la barba, i vestiti puliti e via alla stazione del treno per l'appuntamento. Il loro abbraccio sembra durare un'eternità. E soltanto quando si allontanano, mano nella mano, mi accorgo che sulla maglietta di Salah c'è stampata una loro foto a Tozeur, in Tunisia, in un parco giochi sotto un finto dinosauro.
La stessa foto me la mostra lei in originale in uno dei tre album di fotografie che ha portato. Ci sono gli scatti delle sue vacanze in Tunisia. L'albergo di Tozeur dove Salah lavorava come cameriere quando si conobbero, le oasi del lago salato di Chott el Djerid, le cascate di Tamerza. E la casa che lei si era affittata a Tozeur dopo il loro matrimonio. Le ultime foto sono del 2008. Più recenti non ce ne sono. Il motivo è semplice. Gli ultimi tre anni Salah li ha passati in galera. Con pesanti accuse di traffico di droga internazionale. E una condanna da far accapponare la pelle: 36 anni di carcere. Il destino ha voluto che ne abbia scontati soltanto 36 mesi. Il resto l'ha fatto la rivoluzione, che ha contagiato anche le prigioni dove detenuti politici e detenuti per crimini comuni hanno messo a ferro e fuoco le galere per ritornare a vivere da uomini liberi.
Era il 29 aprile del 2011. E nella prigione di Gafsa il tempo scorreva sempre uguale a se stesso nella fottuta cella che Salah divideva con altri 120 detenuti stipati sui soli 44 letti a disposizione. In cella entrava di tutto, bastava pagare. Droghe, vestiti, dolci, telefonini. Loro si erano fatti portare persino un televisore. Quel giorno guardavano Al Jazeera. Quando la striscia rossa dell'ultim'ora dette la notizia della rivolta nel carcere di Qasserine, nella cella scese uno strano silenzio. Dall'inizio della rivoluzione erano già scappati più di diecimila detenuti dalle carceri del paese. Mafiosi e ladri di polli, detenuti politici e assassini, ubriaconi e sfaccendati, spacciatori e trafficanti, veri o presunti, come Salah.
Lui infatti continua a professarsi innocente, dice che c'è stato un errore giudiziario e che qualcuno della sua famiglia aveva deciso di farlo sparire. Per quello lo torturarono, perché si rifiutava di firmare il verbale dell'interrogatorio, dove c'erano scritte cose che non aveva mai detto. Lo spogliarono nudo, prima lo legarono alla sedia e lo picchiarono, poi lo violentarono ripetutamente. Di quelle notti porta ancora i segni addosso. I denti spezzati, i segni delle manette strette sull'osso dei polsi e il pollice della mano destra che non riesce più a muovere dopo che glielo hanno torto e ritorto per costringerlo a firmare.
Forse è per quello che Salah fu tra i più insistenti quel 29 aprile nella galera di Gafsa. Ben Ali era fuggito e loro che erano i prigionieri di Ben Ali non potevano restare in carcere a scontare le condanne inflitte dal regime. Quando finalmente tutti si convinsero che ce la potevano fare, si misero a studiare un piano. Usarono la bottiglia d'olio d'oliva di Salah come combustibile e mentre uscivano in cortile per l'ora d'aria, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, dettero fuoco a alcuni stracci nella cella. In pochi attimi l'incendio divampò e prese a bruciare tutto: vestiti, materassi, cuscini. Approfittando del panico delle guardie carcerarie, i reclusi ebbero meglio nello scontro fisico, e prima che l'intero carcere andasse a fuoco, presero ai carcerieri le chiavi per aprire le celle delle altre sezioni e corsero via verso l'uscita.
Alla fine non ci fu neanche bisogno di usare i letti a castello che nel frattempo avevano messo uno sull'altro a mo' di scala contro il muro di cinta. Perché nel frattempo erano arrivati i vigili del fuoco e avevano aperto il cancello principale per domare le fiamme. Da lì in centinaia corsero via per le campagne, tra gli oliveti, fino a raggiungere la statale più vicina. Lì ognuno prese la sua strada. Salah si trovò solo con un amico. Fecero autostop a un algerino che andava a Tozeur per rientrare in Algeria.
Prima di salire, Salah volle spiegargli tutto: che erano appena evasi e che rischiava di avere grane con la polizia se lo avessero fermato. L'algerino scoppiò a ridere e con un sorriso di complicità li invitò a salire senza fare troppe storie. Quando Salah vide il telefonino sul cruscotto gli chiese se poteva usarlo. L'autista lo pregò ancora una volta di non fare complimenti. La prima persona che chiamò fu la moglie Nathalie. Era libero. Dovette ripeterglielo due o tre volte, perché non credeva alle sue orecchie.
Ancora oggi, mentre Salah rievoca quei momenti davanti a un panino al tonno in un chiosco di Trapani, lei ha gli occhi lucidi dall'emozione. Di quei tre anni Nathalie ricorda il vetro spesso del parlatoio. E il telefono attraverso cui facevano il colloquio, con un poliziotto dietro le spalle a controllare che cosa si dicevano. Per tre anni l'ha visitato, una volta la mese, nelle carceri di Gabes, Mornaghiya a Tunisi, e infine Gafsa, dove ha fatto amicizia con la moglie di uno dei principali detenuti politici del paese, Fahem Boukaddous, il giornalista che aveva raccontato i moti sindacali delle miniere di Redeyef nel 2008.
Dalla Tunisia, Salah è scappato neanche due settimane dopo essere fuggito dal carcere. Molti degli altri evasi hanno invece preferito ritornare in prigione fidandosi della promessa di un'amnistia avanzata dal governo transitorio. Lui non se l'è sentita. Il terrore della tortura, il pensiero di passare dentro altri 33 anni. Per lui che in carcere è entrato all'età di 26 anni, avrebbe significato uscirne all'età di 62. Un po' come morire. E invece ha deciso di vivere. E per rinascere ha sfidato la morte in mare. Bruciando la frontiera la notte del 13 maggio, dalla città di Zarzis. A Lampedusa sono arrivati il giorno dopo. Per timore di essere identificato in caso di rimpatrio e tornare in galera, alla polizia ha dato un nome falso. Il nome del suo migliore amico.
In Italia si aspettava di trovare la libertà, invece è passato da una prigione a un'altra. Dal carcere di Gafsa a quello di Lampedusa. E poi a quello di Chinisia. Qui però a differenza della Tunisia non ha trovato la forza di ribellarsi. Quando a Chinisia ogni notte tentavano la fuga, lui mi informava per sms che non li avrebbe seguiti. Il suo pensiero era un altro. Un chiodo fisso: il suicidio. Ma finalmente, forse appena in tempo, per una volta il giudice di pace ha preso la decisione giusta e l'ha fatto rilasciare per motivi di salute, con tanto di certificati medici che ne attestavano lo stato di instabilità emotiva.
E adesso che è finalmente libero sembra essere ritornato il ragazzone nelle fotografie di Armelle. Occhiali da sole, vestiti eleganti e la risata pronta a cacciare i cattivi pensieri appesi ai capelli bianchi che gli spuntano qua e là in testa. Ci salutiamo prima che salgano sulla Panda che hanno appena noleggiato. Vanno a passare la notte in un bed and breakfast trapanese. La prima notte dopo due mesi nei Cie.
Li vedo scomparire sulla statale, all'orizzonte. Chissà se Salah era davvero innocente oppure no. Trentasei anni di carcere sono come un ergastolo. Sono addirittura un anno di più dei 35 anni che si è preso in contumacia l'ex presidente tunisino Ben Ali condannato a 35 anni per i crimini della dittatura. E allora penso che qualunque sia la sua storia di questo cameriere di Tozeur, abbia già pagato abbastanza. Che tre anni di carcere e di torture per un ragazzo allora 26enne sono abbastanza. E che adesso è il tempo di tornare a vivere. Buona fortuna Salah. E buona fortuna Nathalie.
(3/3)
Parte di questo reportage è stato pubblicato sul numero di ottobre di E-ilmensilePs Nathalie e Salah sono due nomi di fantasia, per tutelare la privacy dei protagonisti di questa storia, che ci hanno chiesto di rimanere anonimi. Li abbiamo incontrati a luglio a Chinisia, Trapani
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