Sakina e Khayri, foto di Alessio Genovese |
Glielo dice in francese, perché Sakina l’arabo non lo conosce. Il suo vero nome è Patricia e viene da Parigi. È nata nel 1967 da madre andalusa e padre francese. Ha alle spalle un matrimonio andato a rotoli e cinque figli. Ma davanti a sé ha una nuova vita da ricostruire insieme a Khayri. Per questo è a Trapani: è venuta a riprendersi il marito. Che sia una tipa tosta lo si capisce da subito. Lo sguardo da dura, la voce pronta ad aggredire e quella grossa croce tatuata sul braccio sinistro sopra il disegno di un cuore trafitto, ricordo di una gioventù nella banlieue. Sakina ha tradito soltanto un momento di debolezza, quando ha visto per la prima volta il campo di Chinisia. Quella sera aveva gli occhi pieni di lacrime e parole cariche di rabbia e disperazione: «Mi brucerò viva davanti al Centro, sarò la prima martire, ma mio marito non rimarrà rinchiuso in quella gabbia».
Eppure a vederla oggi Sakina sembra un’altra. È bastato un attimo. Quando l’ispettore di polizia di turno ha autorizzato il colloquio col marito, Khayri non ha badato tanto alle formalità. E l’ha abbracciata, con gli occhi chiusi e le parole sussurrate. In quel momento i lineamenti contratti del viso di lei si sono sciolti al pianto e al sorriso. Il primo, dopo mesi di separazione. Il primo da quando Khayri la cacciò dalla Tunisia.
Sakina ricorda ancora la data. Era l’8 aprile. Non avevano mai litigato così pesantemente. Ma Khayri quella volta non volle saperne. La caricò di peso su un taxi per Tunisi, con un biglietto aereo per Parigi. Doveva andarsene e subito. Di tutto il resto avrebbero poi parlato al telefono. A Khayri avevano già ucciso un fratello, Ridha. Non avrebbe permesso alla mafia di ammazzargli anche la moglie. Finché le minacce erano per lui, riusciva a sdrammatizzare. In fondo erano anni che faceva politica. A Gabès lo conoscevano tutti come artista impegnato. Quante statue, quanti quadri, quanti striscioni stampati nella sua tipografia e quante bandiere. Come quella lunghissima, che cucì nei giorni dei cortei a Nahal, con i nomi di tutti i martiri della Rivoluzione dei gelsomini.
Il primo avvertimento arrivò di notte, con gli spari in aria sotto casa. Poi ci fu quella telefonata e quelle minacce mai così esplicite e per la prima volta rivolte alla sua compagna. Il messaggio era chiaro: Khayri si era esposto troppo durante le manifestazioni contro la dittatura. Ed era arrivato il momento di pagare il conto ai clan mafiosi locali, legati all’ormai deposto regime di Ben Alì e impegnati in una lotta per il mantenimento del potere nella Tunisia post rivoluzionaria. Khayri amava la Tunisia, amava la libertà e la rivoluzione. Ma amava di più la sua donna. E così decise di abbandonare la sua terra.
Dopo lo sbarco a Lampedusa, è stato messo in gabbia. Dopo due mesi è ritornato in libertà, perché il giudice di pace ha ritenuto credibile la sua richiesta d’asilo e ha disposto il suo trasferimento in un centro d’accoglienza per richiedenti asilo politico.
Sakina è con lui. Ricominciano insieme da Trapani. Dal gusto del primo gelato di mandorla e fichi su una terrazza di fronte al mare. E poi via. La musica a tutto volume in auto, i finestrini aperti, tra le saline e i vecchi mulini a vento. Prima di spendere i pochi soldi rimasti per una camera d’albergo dove ritrovarsi. Per poi ripartire, il giorno dopo, senza documenti. Destinazione la Francia. E la libertà. La stessa libertà che qualcun altro a Chinisia si è dovuto riconquistare con la forza. Perché Sakina non è l’unica donna arrivata in Sicilia a riprendersi il marito.
(1/3 continua)
Abbiamo incontrato Sakina e Khayri a Chinisia, Trapani, nel luglio 2011. Parte di questo reportage è stato pubblicato sul numero di ottobre di E-ilmensile
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