02 March 2009

Tatun: in Egitto l'ultimo quartiere di Milano

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TatunCAIRO – Esiste un quartiere di Milano non ancora collegato dalla metro. Si chiama Tatun. E si trova in Egitto, nelle campagne irrorate dal Nilo, 150 km a sud del Cairo. Conta solo 80.000 abitanti, ma qui vivono le famiglie di migliaia degli oltre 47.000 emigrati egiziani residenti nel capoluogo lombardo. A unire Milano a questa sua estrema periferia pensano speciali agenzie di viaggio libiche, che si affidano ai vecchi pescherecci rottamati, intercettati ogni settimana al largo di Lampedusa. È iniziato tutto negli anni Novanta. Prima con gli sbarchi in Puglia. Poi la Sicilia. Più di 20.000 egiziani hanno attraversato il Mediterraneo tra il 2005 e il 2007. E piano piano, di sanatoria in sanatoria, chi si è messo in regola ha fatto arrivare i fratelli e i cugini. E ha ricreato a Milano una rete di solidarietà familiare che permette tutt'oggi a migliaia di parenti senza documenti di avere un alloggio e un lavoro. Sono gessisti, carpentieri, manovali, panettieri. Molti sono diventati pendolari. Hanno i documenti in regola e, quando non c'è lavoro, scendono qualche mese in Egitto. Arrivano in automobile, comprano terreni e costruiscono case. In una campagna impoverita dalle ultime riforme agrarie, dove un contadino fatica a racimolare sette euro al giorno, la loro presenza ha disegnato un nuovo immaginario. Emigrare oggi, sembra rappresentare la sola via di riscatto.

TatunÈ la stessa architettura della città a ricordarlo. Basta sollevare lo sguardo dalle strade sterrate per vedere le decine di palazzi in costruzione ovunque. Il colore rosso dei mattoni domina l'orizzonte. Sui tetti, accanto alle parabole, spuntano le armature di ferro dei solai. Ogni anno si mura un altro piano. Ogni piano è per la famiglia di uno dei fratelli. Anche gli interni sono curatissimi. Dall'arredamento ai tappeti. Dalle piastrelle del bagno al televisore. I vicini di casa invece hanno ancora capre e galline sul terrazzo. E i loro figli giocano scalzi sopra i mucchi di immondizia ai bordi delle strade. Oppure accompagnano le madri al mercato, a vendere polli e canna da zucchero. E a mangiare la polvere alzata dalle automobili degli emigrati che si fanno largo a colpi di clacson tra la folla, i trattori e i carretti di arance tirati dagli asini. Sono l'icona del successo. Altro che televisione... Qua la tv è piena di soap opera egiziane ambientate al Cairo. E le parabole sono puntate sulle altre emittenti arabe. Il sogno non viene dal piccolo schermo. Il sogno è reale, cammina per strada. Emigrare è diventato uno status. E a partire non sono i più disperati. Ma casomai i più ambiziosi.

TatunMahmud trascorre sei mesi l'anno a Milano. E altri sei a Tatun. Si è appena risposato con una ragazza di 22 anni del Cairo e hanno una bambina appena nata. Vivono in un appartamento costruito con gli euro guadagnati in Italia come muratore. A Milano vive con otto dei nove fratelli. Tutti emigrati. Ashur fu tra i primi. Nel 1991. Anche lui, gessista, va e viene dall'Italia all'Egitto. Con i documenti in regola viaggiare in aereo è semplice ed economico. Gli emigrati pendolari sono sempre di più. Specialmente adesso che c'è poco lavoro. Ashraf è uno di loro. Da Milano riesce a mantenere due mogli e – per ora... - cinque figli. Portarle in Italia gli costerebbe troppo. Altri però sono ritornati definitivamente. 'Adel ad asempio, che dopo 6 anni di sacrifici in Italia è tornato a Tatun. Ha messo nel cassetto il permesso di soggiorno, e con i risparmi si è costruito una casa, dove vive con la moglie e i tre figli, e si è aperto un negozio. 


I rimpatri da Lampedusa, aumentati negli ultimi due anni, non hanno scoraggiato nessuno. Anzi hanno soltanto abbassato l'età di chi parte. Solo nel 2008 dall'Egitto a Lampedusa sono arrivati più di mille minorenni, che per legge non possono essere espulsi. Per questo Abdallah e Ahmed lasciarono la scuola, a 17 anni, lo scorso dicembre. TatunI genitori erano d'accordo. I fratelli in Italia avevano mandato i soldi. Ma li arrestarono prima di partire, in Libia, per poi rimandarli in Egitto. Abdallah ci ha riprovato una seconda volta. E ci è riuscito. Arrivato a Lampedusa però l'hanno rimpatriato lo stesso. Adesso dice che non pensa più a partire, ma soltanto perché non ha i 3.000 euro per il biglietto. Altrimenti non ci penserebbe due volte. Un suo compagno di scuola, Mustafa, la pensa invece in modo opposto. Dice di aver paura. Paura di morire in mare. Non riesce a togliersi dalla mente l'immagine delle cinque salme rimpatriate dalla Libia sei mesi fa. Sono decine i ragazzi di questa città morti o dispersi in mare. 
 
Targa a Vendicari ricorda le vittime del naufragio del 2007L'ultima grave tragedia si consumò la notte del primo novembre 2007 sulle spiagge della riserva naturale di Vendicari, in provincia di Siracusa. Morirono 17 persone. Due anni dopo, una lapide sulla spiaggia ne ricorda la memoria. La abbiamo montata con un gruppo di cittadini siciliani, durante la commemorazione del naufragio, nel 2008. Said, che oggi vive a Porta Genova, a Milano, perse cinque familiari. Due cugini, un cognato, il fratello e un nipote. Il più giovane aveva 22 anni. Il più grande 37. Erano di Shid Muu, una frazione di Tatun. Lavoravano come muratori, ma per i figli volevano qualcosa di più. I figli già. Said Saad ne aveva quattro. Ibrahim Ahmed due. E Aid Mohamed tre. Cresceranno orfani. E i freschi intonaci del palazzo murato da Said non sostituiranno i loro padri. 
 
RashidErano partiti da Alessandria, in Egitto. Per gli egiziani le rotte si sono già spostate dalla Libia. Da almeno due anni. Nel marzo 2007 infatti la frontiera terrestre tra Libia e Egitto non è più aperta. Per andare a Tripoli serve un contratto di lavoro. Da allora molti egiziani salpano direttamente dalle coste tra il lago di Burullus e Dumyat. E quando l'Italia ha chiesto a Hosni Mubarak di stringere la cinghia, la polizia egiziana si è limitata a pescare nel mucchio. Negli ultimi mesi, almeno 85 pescatori del piccolo porto di Burg Mghizil, sono stati arrestati in modo arbitrario. Alcuni presi a casa, di notte. Altri al porto, di ritorno dalle battute di pesca. Sì perché a differenza della Libia, qua il trasporto degli emigranti è affidato ai pescatori. Che però spesso sono ignari di tutto. A esserne informati sono solo gli armatori e i capitani. I pescherecci escono per il lavoro con tutto l'equipaggio a bordo, ma una volta in alto mare vengono raggiunti dai gommoni carichi di emigranti e ai pescatori viene ordinato di far rotta sulla Sicilia. Se le imbarcazioni riescono a tornare in porto dopo lo sbarco, tutti i marinai vengono arrestati. Ma gli arresti avvengono spesso senza uno straccio di prova. Al punto che molti hanno paura di uscire in mare.

La difesa degli 85 pescatori è stata affidata ad un gruppo di avvocati del Land Centre for Human Rights, una organizzazione non governativa egiziana attiva dal 1997 a fianco dei contadini nelle lotte per le riforme agrarie. Alcuni sono stati arrestati seguiti a operazioni di rimpatrio dall'Italia. Una volta rimpatriati, di norma si viene rilasciati dopo un giorno o due di custodia in aeroporto. Ma per gli emigranti originari di Burg Mghizil, spesso scatta l'arresto. Da quel porto salpano le navi degli emigranti e questo basta a fare di ogni suo abitante un potenziale intermediario. E se parte dei detenuti sono stati assolti dai giudici, rimangono ancora in carcere. Dal 1981 in Egitto vige lo stato di emergenza. E la detenzione amministrativa è la regola.

Saber mi spiega meglio la storia recente delle campagne egiziane. A voler emigrare infatti non è l'Egitto in blocco. Ma sono soprattutto gli abitanti di alcuni paesi rurali. Tatun, ma anche Sharqiyah, Manufiyah, Mansura, Daqahliyah. Secondo Saber la riforma agraria del 1997 ha avuto effetti nefasti. Liberalizzando le concessioni dei terreni agricoli e cancellando i sussidi, il mercato ha punito i piccoli coltivatori. I prezzi al metro quadrato sono aumentati di 30 volte in dieci anni. E un terzo dei terreni è diventato edificabile perché più redditizio. Una politica dissennata in un paese che ancora impiega il 37% della manodopera nell'agricoltura. Aggravata dal disinteresse del governo per le zone rurali e dalla dilagante corruzione. Interi paesi sono senza strade asfaltate, senza illuminazione e senza fognature. Gli stessi emigrati di Tatun non risparmiano critiche al governo egiziano. Parlano di dittatura, di corruzione, si sentono abbandonati a se stessi. Ogni protesta è duramente repressa. Come lo sciopero di Mahalla el Kobra dell'aprile 2008, finito con un morto ammazzato e decine di arresti. Per non parlare dei continui arresti dei membri dell'opposizione e del movimento dei Fratelli musulmani, o della persecuzione di blogger e giornalisti. Se questa è l'alternativa, i giovani preferiscono partire. Perché via mare? Semplice, ogni altra via legale è impraticabile. 
 
Davanti al Consolato italiano al Cairo ogni mattina un centinaio di persone aspetta il proprio turno. Mohamed è uno di loro. Ha vissuto 15 anni in Italia. Aveva deciso di tornare in Egitto, ma dopo qualche anno ha pensato di ritornare in Piemonte. Si è fatto fare un contratto da un amico a Torino. Ha fatto la richiesta nel dicembre del 2007. Un anno e mezzo dopo è ancora qua, nelle mani della lenta burocrazia italiana. Il contratto è il requisito fondamentale per un permesso di soggiorno. Ma chi può assumerti dall'Italia senza prima averti visto e conosciuto? E chi può aspettare un anno e mezzo per assumere un dipendente? Nessuno.. E infatti i contratti si comprano e si vendono. Il prezzo varia dai 5.000 euro in su. Oppure si firmano in Italia, dopo un periodo di clandestinità, e poi si torna in Egitto per presentarsi all'Ambasciata come se nulla fosse. La mobilità è negata anche a turisti, studenti, professionisti. Per avere un visto turistico bisogna addirittura presentare l'estratto del proprio conto in banca. E da giugno 2009, saranno obbligatorie anche le proprie impronte digitali.

Con o senza impronte digitali, Baha Addin, Tamer, Mohamed, Saad e Ahmed. rimarranno a casa. Sono cinque dei 210 ragazzi egiziani che hanno partecipato al progetto di Italia Lavoro e Obiettivo Lavoro. Un progetto realizzato da gennaio a aprile 2008, costato centinaia di migliaia di euro, che doveva selezionare manodopera in Egitto, formarla e insegnare loro l'italiano per poi farli assumere in Italia. L'unica cosa che ha funzionato è stato il corso di lingua, curato dalla scuola Don Bosco dei salesiani, al Cairo. Il resto è stato un disastro. Alla fine soltanto una sessantina dei 210 candidati sono stati accettati. Per tutti gli altri, i datori di lavoro si sono tirati indietro. Troppo lunghi i tempi di attesa. Nel frattempo è cambiato il governo e il progetto è naufragato. Cosa faranno questi ragazzi adesso? Molti erano di Sharqiyah, una delle province di maggiore emigrazione in Italia. A chi si affideranno per attraversare quella maledetta frontiera?

Ahmed si affidò al cugino di sua madre. Mohammad Mohammad Ahmed el-Ayuti. Anche lui era di Sharqiyah. Di un piccolo paesino di 2.000 abitanti: Sifeita. Era risaputo che fosse in contatto con dei libici a Tripoli. Aveva già fatto viaggiare un gruppo di ragazzi del paese. Era andato tutto liscio. Il primo tentativo di Ahmed fallì. Li intercettarono in acque libiche e li respinsero in Egitto. Ci provarono una seconda volta. Insieme a Ahmed partirono altri 14 ragazzi di Sifeita. Era il 26 giugno del 2007. Dopo un mese di silenzio, martedì 7 agosto, Ahmed telefonò al padre, Said, dicendo che sarebbe partito il venerdì. Quella è stata l'ultima volta che hanno sentito la sua voce. Due settimane dopo, tornarono in paese i quattro superstiti. Raccontarono che il motore si era rotto poco dopo la partenza, e che erano rimasti quattro giorni alla deriva. A raccontarmi la storia è il padre di Ahmed. Nella penombra del modesto salotto di casa sua. Ha gli occhi lucidi. Nei momenti di silenzio sembra raccogliere le parole. Il corpo del figlio non è mai stato recuperato. È disperso in fondo al Mediterraneo. Si morde le labbra e fissa un punto nel muro. Ha gli occhi di chi ha finito le lacrime. Ma non la rabbia. L'intermediario che gli ha portato via il figlio primogenito è stato denunciato dalle 11 famiglie dei morti, e condannato a due anni di carcere. Ma continua a girare indisturbato. Va e viene dall'Italia all'Egitto. E come se non bastasse, ha avuto la faccia tosta di denunciare il padre del ragazzo morto. L'ha citato in giudizio per non aver saldato il pagamento del viaggio del figlio. Gli deve ancora 2.000 euro. 
 
Said scuote la testa. Suo figlio aveva 21 anni. Era il primogenito, di tre figli. L'unico maschio. E si era sposato quattro mesi prima di partire. Non è tutto. La moglie, Safa, aspettava un bambino. Probabilmente fu questa notizia a spingerlo a partire. Il piccolo Yusuf è nato sei mesi dopo la morte del padre. Faccio fatica a trattenere le lacrime. Vorrei non essere qui con il mio passaporto italiano. Vorrei non ricordare di aver preso il visto per l'Egitto in meno di due minuti, all'aeroporto del Cairo. Vorrei cancellare la storia. E non ricordare l'emigrazione italiana in Egitto. Gli sterratori lucchesi ingaggiati per gli scavi del Canale di Suez nel 1859, gli esuli mazziniani, i pescatori di Procida e Molfetta, le badanti friulane. Vorrei, ma non posso. Perché io so che ad uccidere Ahmed non è stato il mare in tempesta, né un motore grippato. Ma il colore sbagliato del suo passaporto.

Per approfondimenti, leggi la scheda sulla emigrazione egiziana in Italia
Multimedia: guarda il photo-reportage
su Rashid e Tatun di Laura Cugusi