scritto da Stefano Liberti
pubblicato su Il Manifesto, il 2 novembre 2008
pubblicato su Il Manifesto, il 2 novembre 2008
A un anno dalla strage, Vendicari ricorda le vittime del mare. La notte tra il 27 e il 28 ottobre 2007 il mare davanti a Noto inghiottì 17 persone, immigrati egiziani in cerca di un futuro. Una tragedia che non va dimenticata
SIRACUSA - «Siamo qui per ricordare quelle diciassette persone che sono morte qui l'anno scorso, ma anche tutti quelli che sono stati inghiottiti da questo stesso mare mentre venivano qui in cerca di fortuna». Moufid Abu Touq, l'imam di Catania, ha una voce possente che si scioglie a tratti in sussulti d'emozione. Accanto a lui, quattro uomini e quattro donne pregano a capo chino su una coperta stesa sulla spiaggia. Davanti al gruppo campeggia un mazzo di rose rosse. Dietro, un centinaio di persone - amici, curiosi, attivisti, cittadini - osserva la scena. La spiaggia di Vendicari, a pochi chilometri da Noto, risuona solo del vento e dei versetti del Corano. È qui che, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre dell'anno scorso, si è consumata una delle tragedie dell'immigrazione che hanno segnato in questi ultimi anni le cronache del nostro paese: 17 egiziani sono affogati quando il canotto che li trasportava dalla nave madre si è cappottato a causa del mare agitato. Solo in sette sono riusciti a raggiungere la riva. Oggi, a un anno di distanza, un gruppo di residenti di Noto ha deciso che quelle morti dovevano essere ricordate, che non dovevano essere sepolte dall'oblio. Ha quindi organizzato una commemorazione. Una sorta di presidio della memoria, che si è tenuto in questa spiaggia - a poche decine di metri da una rinomata riserva naturale - in contemporanea a iniziative analoghe in Spagna (a Tarifa) e in Marocco (a Larache).
La manifestazione parte da Noto, dalla piazza del paese, a poche centinaia di metri dal famoso duomo barocco, che risplende sotto un sole abbagliante. A un segnale dato dagli organizzatori, una teoria di macchine parte in direzione della spiaggia. Ognuna di queste macchine ha un preciso segno distintivo: viaggia sbandierando una scarpa. In alcuni casi, è una ciabatta fissata sul cofano; in altri, un mocassino che penzola dal finestrino o troneggia sul tetto. «La scarpa è il segno della memoria, a volte è l'unica cosa che rimane di un naufragio, è l'unica cosa che il mare restituisce. Quando in spiaggia si trovano molte scarpe abbandonate non è mai un buon segno», racconta uno degli organizzatori. La scarpa come metafora del viaggio, ma anche come simbolo di un viaggio spezzato. L'obiettivo è chiaro: fare in modo che i caduti della guerra all'immigrazione non siano considerati vittime collaterali, che quelle morti non siano rubricate come inevitabili. Il messaggio che gli organizzatori vogliono far passare è inequivocabile: denunciare «la politica criminale di chiusura dell'Unione europea», come recita la targa con i nomi dei ragazzi morti che è stata installata sulla spiaggia alcuni mesi fa.
Ma oggi non c'è spazio per nessun comizio. Oggi è il momento del raccoglimento e del dolore e i protagonisti in spiaggia saranno coloro che quel dolore l'hanno vissuto in prima persona. Said è venuto da Milano, si è sparato diciannove ore di treno per partecipare a questa cerimonia. Lui quella notte ha perso un pezzo della propria vita: nel naufragio sono morti cinque suoi familiari, fra cui suo fratello. «Mi ricordo distintamente la telefonata che mi è arrivata il 28 ottobre dell'anno scorso», racconta oggi. «Un mio nipote mi ha chiamato e mi ha informato che c'era stato un incidente e che gran parte di quanti viaggiavano con lui erano affogati. Mi ha detto che mio fratello, mio cognato, un altro mio nipote e due miei cugini non ce l'avevano fatta». Said ha uno sguardo appuntito, un po' diffidente, che si apre in improvvisi e fugaci sorrisi. Malgrado cerchi di mascherarlo, porta impresso sul volto il segno del lutto. Parla un italiano stentato, ma ha stabilito un personale lessico per descrivere quella maledetta traversata in cui ha perso gran parte della famiglia: nelle sue parole, il viaggio diventa «l'omicidio»; gli organizzatori del trasbordo «gli assassini».
Said cerca di mantenere la calma, ma quando gli si avvicina Redda, un ragazzo gigantesco miracolosamente scampato al naufragio, scoppia a piangere. È la prima volta che incontra Redda e quando questi gli parla del fratello, del suo compagno di viaggio caduto in mare, non riesce a trattenere le lacrime. Si allontana per pudore, prima di esplodere in un pianto liberatorio. Poi ritorna e, con gli occhi ancora gonfi, continua il racconto: «Sono venuto qui il giorno dopo il naufragio. Ho dovuto riconoscere i corpi. Poi sono andato a Catania, dove i cadaveri sono stati imbarcati su un aereo per l'Egitto». Quel giorno di ottobre, un altro viaggio si era concluso in dramma in Calabria, a Roccella Jonica, e aveva visto la morte di sette immigranti. Così, a metà strada, nella città etnea erano state raccolte le salme di quei due naufragi, in una sorta di sovrapposizione delle tragedia. «C'erano tantissime bare. Mi sembrava di stare in guerra».
Said è arrivato dall'Egitto quattro anni fa dopo una traversata di 24 ore che si è conclusa a Lampedusa. Oggi è in Italia con un permesso per «motivi di giustizia», perché deve testimoniare nel processo contro quanti hanno organizzato il viaggio in cui sono morti i suoi familiari. Said oggi ha quarant'anni e una vita precaria: ha perso il lavoro e buona parte della famiglia. In silenzio, alla fine della cerimonia, guarda lontano verso l'orizzonte. Si avvicina al mare, lancia il mazzo di rose in acqua e si china, forse a pregare il suo dio che il futuro gli riservi qualcosa di meglio
(Stefano Liberti, Il Manifesto)