02 May 2008

Aprile 2008

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Campement de migrants dans la forêt, photo de Anaïs PachabézianROMA - Li hanno fatti sparire per cancellare le prove. Li hanno deportati in una terra di nessuno, senza acqua né viveri, lungo la frontiera algerina, perché non potessero parlare. Sono i 42 superstiti del naufragio di Hoceima del 28 aprile 2008. Accusano i soldati della Marina Reale Marocchina di avere affondato il loro gommone. Rabat nega ogni responsabilità. Fortress Europe è riuscita a intervistarli. In queste ore si trovano in un accampamento di fortuna in una zona boscosa lungo la frontiera tra Algeria e Marocco. Un militante di una associazione marocchina - di cui non possiamo citare il nome per ragioni di sicurezza - ci ha permesso di parlare al telefono con due uomini e una donna sopravvissuti al naufragio. Un naufragio di cui non si doveva sapere niente. Perché ad uccidere non è stato il mare ma gli agenti marocchini. Le versioni dei tre testimoni coincidono.

Sono le due di notte del 28 aprile quando un gommone di tipo Zodiac di nove metri, con un’ottantina di passeggeri nigeriani, ghanesi, camerunesi e maliani, salpa dalle coste di Hoceima alla volta della Spagna. Cinque ore più tardi viene intercettato in alto mare da una motovedetta della marina marocchina. È già giorno. “Si sono avvicinati – grida Fred al telefono -, hanno tagliato le camere d’aria del gommone con dei coltelli e se ne sono andati”. Nel giro di pochi minuti il gommone si sgonfia e si rovescia in mare. A bordo scoppia il panico. Molti non sanno nuotare e annegano. Una donna finisce tra la schiuma del mare con il bambino di pochi mesi stretto al petto. Poco lontano scompaiono tra le onde un’altra donna e tre bambini piccoli. Nel giro di un’ora arrivano i soccorsi. Tre motovedette marocchine prendono a bordo i superstiti e recuperano una decina di cadaveri. Portano tutti quanti a Hoceima, 150 km a est di Melilla. Vengono rinchiusi nel commissariato. All’appello mancano 36 persone, tra uomini, donne e bambini, tutti morti annegati. “Siamo stati trattenuti per 48 ore in isolamento, senza acqua né cibo, né bagni – ci dice una delle quattro donne nigeriane sopravvissute -. Poi ci hanno caricato su un autobus e abbandonati alla frontiera algerina, in una terra di nessuno, era lontano da Oujda”. Dopo una lunga marcia raggiungono un accampamento dove vivono circa duecento deportati, in mezzo ai boschi. “Abbiamo costruito dei ripari per la notte con dei teli di plastica – ci spiega uno di loro -, viviamo di elemosina, molti sono malati”. Le condizioni sono pessime e tornare a Rabat, con il clima che si respira dopo le ultime retate in città, è inimmaginabile. Intanto, altre sette persone del gruppo dei 42 superstiti, hanno perso la vita. Non ce l’hanno fatta a resistere al naufragio, alla fame, alla sete e alla lunga marcia a piedi per raggiungere il rifugio.

L’operazione di affondamento volontario operato dagli agenti della marina marocchina, in italiano si chiamerebbe “omicidio plurimo volontario”. Ma in darija, la lingua marocchina, si deve dire in un qualche altra maniera, dato che nessun giornale ha riportato la notizia. Per l’ennesima volta, nessuno pagherà per le vite degli altri. È vergognoso. E lo è ancora di più se si considera che 40 motovedette recentemente acquistate dalle autorità marocchine sono state finanziate con fondi europei. É la solita storia. Di un’Europa che appalta il controllo delle proprie frontiere e chiude gli occhi sui crimini commessi dai suoi nuovi gendarmi.

Così il mese di aprile consegna alla morte 101 persone tra uomini, donne e bambini, caduti tentando di venire in Europa. Cinque uomini sono morti nascosti nella stiva di un cargo approdato alle Canarie, in quattro hanno perso la vita lungo la frontiera tra Turchia e Iraq, annegati dopo essere stati buttati in un fiume dalla polizia turca durante un’espulsione, e rifugiato eritreo è caduto sotto il fuoco egiziano lungo la frontiera del Sinai con Israele. In mare, oltre ai 43 di Hoceima, ci sono state almeno 24 vittime tra Algeria e Spagna e 24 tra la Tunisia e l’Italia, al largo delle coste siciliane, che nelle ultime settimane hanno visto un forte incremento degli sbarchi, complice il bel tempo e i ritardi del pattugliamento congiunto di Frontex.

Nell’ultima settimana di aprile sono giunti a Lampedusa oltre 1.000 migranti, soprattutto nord africani e in parte somali. Il 24 aprile un naufragio al largo di Chebba, il punto della costa tunisina più vicino a Lampedusa, ha fatto 23 morti. Il giorno dopo un’altra tragedia 80 miglia a sud dell’isola. É notte inoltrata quando navi della Marina militare e della Guardia costiera italiana raggiungono in acque maltesi, una nave con a bordo 241 passeggeri. Iniziano a trasbordarli, ma durante le operazioni due uomini cadono in acqua. I sottufficiali Federico Nicoletti ed Oronzo Oliva non esitano e si tuffano in acqua a proprio rischio e pericolo, nonostante il mare forza cinque, per trarli in salvo. Riescono a recuperarli, ma purtroppo uno dei due morirà poco dopo. Un gesto di coraggio, che fa onore ai due ufficiali, che presto saranno premiati dalla Guardia costiera e dall’Acnur. Un gesto che ribadisce la priorità della vita in mare. E che fa onore alla Guardia costiera italiana negli anni in cui i migranti in mare si respingono o si ammazzano, come poche settimane fa in Marocco e nel passato in Grecia, ma anche in Italia con le stragi causate dalla nave della Marina militare Minerva a Lampedusa nel 2006 e dalla Sibilla in Puglia nel 1997.

I dati sul salvataggio in mare confermano lo sforzo della Guardia costiera italiana. Il 44% dei 560 interventi di soccorso in mare effettuati nei primi sei mesi del 2007 dalla Guardia costiera sono stati effettuati in acque sar (search and rescue) di competenza maltese, “molti dei quali nati in area libica”, si legge in una nota inviata al Ministero degli esteri dalla Guardia costiera nel mese di ottobre 2007. Ad essere latitanti sono le autorità maltesi, senza parlare di quelle libiche, che recentemente, secondo indiscrezioni non ancora confermate, avrebbero sparato su un’imbarcazione uccidendo alcuni migranti a bordo e ferendone altri. Malta ha una zona sar grande quanto la Gran Bretagna, troppo vasta per essere pattugliata con i propri mezzi. E tuttavia Malta non vuole cedere un solo centimetro delle sue acque sar perché all’area sar corrisponde uno spazio fir (flight information service) che frutta al piccolo Stato un diritto di passaggio per ogni aereo che sorvola l’area, a cui La Valletta non intende rinunciare. E Malta in qualche modo sta causando il ritardo dell’avvio della missione di Frontex Nautilus III. Gli Stati partecipanti non si sono infatti ancora messi d’accordo su chi deve accogliere i migranti e i rifugiati soccorsi in mare. Malta non li vuole tutti per sé, sebbene dall’inizio del 2008 non abbia visto arrivare lungo le sue coste che poche centinaia di persone. Appena sciolto questo nodo la missione dovrebbe partire e durare tutta l’estate. Più a sud le navi italiane della Guardia di Finanza pattuglieranno le acque libiche di Zuwarah.

Dalla Libia intanto arriva una buona notizia. Altri 30 rifugiati eritrei, soprattutto donne, sono stati accolti in Italia grazie alla mediazione di Acnur, Cir, Oim e Ministero dell’Interno. Si tratta del secondo resettlement da Misratah dopo i 40 di novembre. Intanto però oltre 700 eritrei, e una minoranza di etiopi, da due anni sono detenuti nel campo di Misratah senza aver commesso nessun reato, arrestati durante retate per strada. E recentemente altri 110 eritrei, tra cui 20 donne, sono stati arrestati e trasferiti al campo di detenzione di Zliten, a metà strada tra Khums e Misratah. Forse anche per questo stanno arrivando pochi eritrei a Lampedusa. Molti sono detenuti. Gli altri aspettano. La voce dei resettlement si è diffusa grazie al passaparola. E infatti negli ultimi mesi l’Acnur a Tripoli ha avuto un boom di richieste d’asilo da parte di eritrei. Difficile però immaginare che il nuovo Governo italiano, e specialmente la xenophoba Lega Nord, autorizzerà nuovi resettlement.

Dopo la Grecia è la volta della Turchia. Sulla via delle spezie l’Acnur fa la voce grossa, a differenza di quanto accade in Nord Africa. L’Alto commissariato, prima aveva chiesto ai Paesi europei di sospendere la convenzione di Dublino verso Atene, adesso chiede ufficialmente chiarimenti al governo turco sui morti del 23 aprile: quattro uomini, compreso un rifugiato iraniano, annegati dopo essere stati gettati in un fiume in piena dalla polizia di frontiera turca durante un’espulsione al confine con l’Iraq, vicino al posto di blocco di Habur (Silopi) nella provincia di Sirnak. Secondo testimonianze raccolte dall’Acnur, le autorità turche hanno prima tentato di deportare 60 persone di varie nazionalità in Iraq attraverso il posto di blocco di Habur. Ma le autorità irachene hanno concesso l’ingresso soltanto ai 42 cittadini iracheni, rifiutando di farsi carico degli altri: 17 iraniani e un siriano. A quel punto la polizia turca ha preso i 18, tra cui cinque rifugiati iraniani riconosciuti dall’Unhcr, e li ha portati nel punto dove il corso di un fiume divide i due Paesi. Quindi li ha costretti a gettarsi in acqua. In quattro, compreso uno dei rifugiati iraniani, sono morti annegati trascinati dalla forte corrente. Prima dell’espulsione, l’Acnur aveva informato il governo turco della presenza di rifugiati tra i migranti arrestati al confine greco. Non è servito a niente. L’Ue, come al solito, non ha commentato.

Concludiamo il rapporto pubblicando alcuni estratti di un reportage di Sara Prestianni, che nel marzo 2008 ha raccolto alcune testimonianze lungo la frontiera tra Mali e Algeria, a Kidal. “La polizia algerina fa quello che vuole con noi, ti riempiono di manganellate anche soltanto se provi a parlare loro – racconta un refoulé (espulso) nigeriano –. A Tamanrasset dormivamo nella stessa stanza, in 300. Ci tenevano a pane e latte, una volta al giorno”. Dopo la detenzione l’espulsione “su dei camion militari completamente chiusi, senza finestrini” verso la frontiera di Bordj Mokhtar, nel cuore del Sahara, da dove si prosegue a piedi verso l’oasi di Tinzaoutine. “A Tinzaouatine non c’è niente, sei in mezzo al deserto. Avevo dei soldi e ho pagato un fuoristrada 1.400 dinar per farmi portare a Kidal. Rimanere a Tinzaouatine senza soldi è un dramma. Quelli rimasti per molto tempo sono impazziti”. Quest’uomo oggi vive a Kidal, 300 km a sud da Tinzaouatine. Abita in un ghetto, così si chiamano le squallide case affittate ai migranti, costretti a condividere i pochi metri di pavimento per dormire gomito a gomito, per terra. Le voci e le foto del ghetto di Kidal sono online sul sito di Storie Migranti.