14 July 2011

Continua l'odissea dei naufraghi salvati da nave Nato


La storia va avanti ormai da quattro giorni. E non fa onore a nessuno. Domenica scorsa una nave da guerra della marina spagnola, la Almirante Juan de Borbón, impegnata nella missione Nato in Libia, ha soccorso un vecchio peschereccio partito da Zuwara e finito alla deriva con un carico di 111 passeggeri diretti a Lampedusa in fuga dalla guerra in Libia, comprese 17 donne e 8 bambini piccoli. La barca aveva il motore in panne e anche il tentativo dei militari spagnoli di ripararlo si è dimostrato inutile. Così, come prescritto dal diritto marittimo internazionale, è scattato il salvataggio e i 111 naufraghi sono stati presi a bordo sulla nave da guerra. Il soccorso è avvenuto a circa 78 miglia dalla Tunisia, 88 da Lampedusa e 141 da Malta. Da allora è iniziata una frenetica attività diplomatica per convincere qualcuno a prendersi i naufraghi. Tecnicamente, il comando della nave militare ha dichiarato l'evento Sar (Search and Rescue, ovvero ricerca e soccorso) alle capitanerie di porto italiane e maltesi. Nessuno dei due paesi però è disposto ad autorizzare lo sbarco dei cento indesiderati profughi di guerra. Roma si sarebbe giustificata sostenendo che il luogo dei soccorsi era troppo lontano per consentire un utile intervento delle motovedette e che, comunque, il centro di accoglienza di Lampedusa era saturo e non poteva accogliere altri naufraghi. Malta invece si sarebbe rifiutata di intervenire perché la fregata si trovava a oltre dieci ore di navigazione. Alla fine però qualcuno ha deciso di forzare il blocco navale, e la nave da guerra ha mosso i motori in direzione del porto di La Valletta. Malta è stata informata della mossa in ritardo, quando ormai la fregata era a sole 40 miglia dall'isola, e ha reagito bloccando l'accesso al porto di La Valletta e inviando una nota di protesta al comando della Nato. Intanto però le condizioni dei naufraghi a bordo sarebbero critiche. Una donna incinta, il figlio e un uomo con una ferita alla mano sono stati trasferiti a bordo di una motovedetta tunisina. Mentre un'altra donna, un neonato di dieci mesi e un ragazzo sono stati trasferiti in elicottero oggi a Malta per essere ricoverati in ospedale.

La gravità del caso è duplice. Da un lato ci sono tutte le palesi violazioni del diritto internazionale, che obbliga gli equipaggi in mare al salvataggio e gli Stati alla concessione dei propri porti per lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino all'evento di soccorso. Senza parlare del fatto che parliamo di gente che veramente viene via da un paese in guerra come la Libia di oggi. Il secondo punto è il messaggio che episodi del genere inviano agli uomini di mare. Che siano comandanti di pescherecci, di mercantili o di altri mezzi della Nato. Salvare gente nel Mediterraneo porta rogne, se i naufraghi hanno la pelle nera e viaggiano senza passaporto. Significa perdere giorni e in alcuni casi settimane di tempo. Quindi meglio lasciare perdere. Esattamente come ha fatto a marzo un altro mezzo della Nato, accusato di omissione di soccorso dagli unici superstiti di un naufragio costato la vita a più di 60 eritrei, sempre sulla rotta tra la Libia e Lampedusa.

Per fortuna che a Mazara del Vallo ci sono ancora comandanti che credono alle leggi del mare e della vita più che alle leggi inospitali della terra. A volte anche andando incontro a processi e costosissimi sequestri delle imbarcazioni, come successo ai sei pescatori tunisini di Teboulbah nel 2007, condannati e premiati per il loro salvataggio, e come successe nel 2004 all'equipaggio della Cap Anamur. Eppure in passato anche alcuni pescatori hanno avuto comportamenti deplorabili, come il comandante barese che ributtò a mare un naufrago nel 2008 vedendolo annegare sotto i propri occhi perché temeva di essere accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Il terzo rischio infine, è che ci si faccia l'abitudine. A questa disumanità. A questa cattiveria. Alla violenza di un paese che nega l'approdo a cento naufraghi oltretutto in fuga da un territorio che quello stesso paese sta partecipando a bombardare.