Riceviamo e pubblichiamo il briefing bisettimanale alla stampa dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) del 13 maggio 2011, che ricostruisce la vicenda della nave abbandonata in alto mare dalle navi da guerra della Nato alla fine di marzo. Quell'omissione di soccorso portò alla morte di 63 dei 72 passeggeri, morti di stenti durante due settimane alla deriva nel Mediterraneo prima che la barca, spinta dalla corrente, raggiungesse la costa di Zlitan, in Libia. Si tratta della stessa storia denunciata pochi giorni fa dal Guardian. La ricostruzione dell'Unhcr è di fondamentale importanza, perché si basa sulle interviste di tre dei nove superstiti della strage, i quali sono riusciti a fuggire di nuovo dalla Libia e a riparare nei campi profughi di Choucha, in Tunisia.
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
Briefing bisettimanale alla stampa
13 maggio 2011
Libia: la testimonianza di un naufrago
Ieri mattina il personale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha incontrato tre uomini etiopici di etnia oromo, i quali hanno affermato di far parte dei soli nove sopravvissuti di un’imbarcazione con 72 persone a bordo, salpata da Tripoli lo scorso 25 marzo.
La barca di 12 metri, con destinazione Europa, era carica all’inverosimile - racconta uno di loro agli operatori dell’Agenzia - al punto che vi era a malapena lo spazio per stare in piedi. Una volta esaurito il carburante, come anche acqua e cibo, il natante ha iniziato a vagare alla deriva per due settimane prima di raggiungere una spiaggia libica.
Per due volte - prosegue il rifugiato - navi militari hanno incrociato l’imbarcazione senza fermarsi. A un certo punto del viaggio un elicottero ha lasciato cadere cibo e acqua sulla barca. La prima nave ha rifiutato la richiesta dei passeggeri di essere trasbordati, la seconda ha scattato soltanto fotografie. L’uomo non è stato in grado di identificare la provenienza delle navi.
L’incontro tra gli operatori UNHCR e i tre uomini è avvenuto nel campo di Shousha in Tunisia. Uno di loro parlava arabo - ed è stato intervistato - gli altri oromo. Ha riferito di aver pagato 800 dollari USA ai trafficanti per il viaggio. Gli stessi passeggeri avrebbero dovuto condurre l’imbarcazione.
Quando le scorte di acqua sono terminate - aggiunge il rifugiato - le persone hanno cominciato a bere acqua di mare e la propria urina. Hanno mangiato dentifricio. Hanno iniziato a morire uno dopo l’altro. Ma prima di gettare i corpi in mare, hanno aspettato un giorno o due. C’erano anche 20 donne e 2 bambini piccoli sulla barca. Una donna con un bambino di due anni è morta tre giorni dopo il suo piccolo. Enorme è stata l’angoscia della madre dopo la morte del figlio, racconta il rifugiato.
Dopo l’arrivo su una spiaggia nei pressi di Zliten, tra Tripoli e il confine con la Tunisia, un’altra donna è morta esausta sulla spiaggia. I 10 sopravvissuti hanno iniziato a camminare fino alla città di Zliten dove sono stati arrestati dalla polizia libica, portati in ospedale e poi in carcere, dove gli è stata data un po’ d’acqua, latte e datteri. Due giorni dopo è morto un altro di loro.
Hanno implorato le guardie carcerarie di portarli di nuovo in ospedale. Li hanno accompagnati in quello di al-Khums. Ai medici e agli infermieri è stato detto di dar loro acqua e poi di andar via. Quindi sono stati portati nuovamente in carcere e poi in un altro, quello di Twesha, vicino Tripoli. Qui alcuni amici hanno pagato 900 dollari per il loro rilascio. Adesso l’UNHCR li assiste in Tunisia.
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
Briefing bisettimanale alla stampa
13 maggio 2011
Libia: la testimonianza di un naufrago
Ieri mattina il personale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha incontrato tre uomini etiopici di etnia oromo, i quali hanno affermato di far parte dei soli nove sopravvissuti di un’imbarcazione con 72 persone a bordo, salpata da Tripoli lo scorso 25 marzo.
La barca di 12 metri, con destinazione Europa, era carica all’inverosimile - racconta uno di loro agli operatori dell’Agenzia - al punto che vi era a malapena lo spazio per stare in piedi. Una volta esaurito il carburante, come anche acqua e cibo, il natante ha iniziato a vagare alla deriva per due settimane prima di raggiungere una spiaggia libica.
Per due volte - prosegue il rifugiato - navi militari hanno incrociato l’imbarcazione senza fermarsi. A un certo punto del viaggio un elicottero ha lasciato cadere cibo e acqua sulla barca. La prima nave ha rifiutato la richiesta dei passeggeri di essere trasbordati, la seconda ha scattato soltanto fotografie. L’uomo non è stato in grado di identificare la provenienza delle navi.
L’incontro tra gli operatori UNHCR e i tre uomini è avvenuto nel campo di Shousha in Tunisia. Uno di loro parlava arabo - ed è stato intervistato - gli altri oromo. Ha riferito di aver pagato 800 dollari USA ai trafficanti per il viaggio. Gli stessi passeggeri avrebbero dovuto condurre l’imbarcazione.
Quando le scorte di acqua sono terminate - aggiunge il rifugiato - le persone hanno cominciato a bere acqua di mare e la propria urina. Hanno mangiato dentifricio. Hanno iniziato a morire uno dopo l’altro. Ma prima di gettare i corpi in mare, hanno aspettato un giorno o due. C’erano anche 20 donne e 2 bambini piccoli sulla barca. Una donna con un bambino di due anni è morta tre giorni dopo il suo piccolo. Enorme è stata l’angoscia della madre dopo la morte del figlio, racconta il rifugiato.
Dopo l’arrivo su una spiaggia nei pressi di Zliten, tra Tripoli e il confine con la Tunisia, un’altra donna è morta esausta sulla spiaggia. I 10 sopravvissuti hanno iniziato a camminare fino alla città di Zliten dove sono stati arrestati dalla polizia libica, portati in ospedale e poi in carcere, dove gli è stata data un po’ d’acqua, latte e datteri. Due giorni dopo è morto un altro di loro.
Hanno implorato le guardie carcerarie di portarli di nuovo in ospedale. Li hanno accompagnati in quello di al-Khums. Ai medici e agli infermieri è stato detto di dar loro acqua e poi di andar via. Quindi sono stati portati nuovamente in carcere e poi in un altro, quello di Twesha, vicino Tripoli. Qui alcuni amici hanno pagato 900 dollari per il loro rilascio. Adesso l’UNHCR li assiste in Tunisia.