“Non è per le condizioni del centro, è per la libertà. Che me ne importa di come si mangia, lo vedi qui è a posto, ma perché ci devono tenere rinchiusi come animali?”. Ali è un elettricista di Zarzis, suo zio l'aspettava a Parigi. Ma a questo punto non sa più neanche lui se e quando arriverà. “Non si capisce niente. C'è chi dice che ti tengono dentro sei mesi, chi dice che ti rimandano in Tunisia”. Centro di identificazione e espulsione di Modena. È la mattina di venerdì 25 febbraio. Mancano ancora due giorni alla rivolta di domenica. E la prefettura mi ha autorizzato a visitare il centro. Con un po’ di insistenza ho finalmente ottenuto l’ok per l’ingresso nei moduli dove sono reclusi i tunisini trasferiti da Lampedusa nelle settimane scorse.
Sono 42 su un totale di 59 uomini rinchiusi qua dentro. E vengono quasi tutti dalla città di Zarzis, a parte qualcuno di Sfax e di Ben Guerdane. Per capirlo basta dare uno sguardo alle pareti della sala comune. Le avevano da poco riverniciate di bianco. Ma sono bastati pochi giorni perché tornassero di nuovo tutte un graffito. “Zarzis” è la parola più frequente. È scritta in arabo e in italiano. Alternata alla rabbia di chi ha scritto in un italiano sgrammaticato spergiuri di vario genere contro il governo, alla nostalgia di chi ha inciso dichiarazioni d’amore per una tale Maria, alla speranza di chi ha ripetuto “Allahu Akbar”, dio è il più grande, e al cocktail di tutte queste emozioni raccolte nel disegno di un grande cuore incendiato.
Ali mi mostra la camera. Ci sono due letti. È tutto pulito. Il muro è un collage di fotografie di nudi femminili degno di un collezionista di Playboy. Al centro dei due letti però, su quello stesso muro c’è appeso un cartone bianco con su scritto con cura, a pennarello verde, la prima sura del Corano. Indica la direzione della preghiera, verso Mecca. “Insha’allah nakhruju”, mi dice. Se dio vuole usciremo. Solo in quel momento mi accorgo che dietro di lui, nel corridoio, sul muro c’è un’altra scritta che prima non avevo notato. È in italiano, dice: “La cosa più bella al mondo è la libertà”.
Ma noi, ce lo ricordiamo ancora quanto vale la libertà? Se lo abbiamo dimenticato forse ci farebbe bene un passaggio dietro le sbarre del centro espulsioni di Modena, dove domenica scorsa "libertà" era il grido che saliva dalle gabbie durante la rivolta, quando i tunisini reclusi hanno buttato i materassi fuori dalle camerate nel cortile e gli hanno dato fuoco. Per quasi tutti loro, questa è la prima volta che si trovano in detenzione. E quello che non riescono a capire, è perché loro sono finiti dietro le sbarre mentre i loro compagni di viaggio con cui sono sbarcati in Italia, a quest’ora sono già arrivati in Francia.
Abdelshafi ad esempio ha degli amici di Zarzis che hanno viaggiato con lui, sulla stessa barca, e che da Lampedusa erano stati trasferiti al centro espulsioni di Bologna, da dove però nel frattempo sono stati rilasciati con un foglio di via. L’ultima volta che li ha chiamati gli hanno detto di essere già arrivati a Parigi. Perché loro sì e lui no? Lui che prima di imbarcarsi senza documenti aveva pure provato la strada legale, chiedendo un visto turistico all'ambasciata della Polonia a Tunisi. Pensava sarebbe stato più facile, da Varsavia avrebbe poi raggiunto in auto la Francia. Ma il visto glielo hanno rifiutato e oggi si ritrova rinchiuso qua dentro.
Jed invece è del nord della Tunisia, di Cap Bon, ed è sbarcato a Pantelleria a metà gennaio. A bordo erano in sei, tutti amici. E tutti e sei sono stati portati al centro espulsioni di Modena. Poi però in tre sono stati rilasciati, per fare posto ai nuovi arrivati. E gli altri tre ancora si chiedono perché la loro libertà valga di meno. La stessa domanda se la pone da giorni Karim. Un uomo di quarant’anni. Una brava persona che per la prima volta si trova detenuto e non riesce a farsene una ragione. Lui che era partito pensando che avrebbe facilmente trovato un lavoro per curare il figlio. Un bambino di 9 anni, con una malattia genetica al sistema nervoso, che necessita di cure e assistenze continue, e che invece adesso è ancora più solo. L'altra notte suo padre si è messo a piangere pensando alla situazione in cui è finito e pensando che lo aspettano sei mesi rinchiuso qua dentro.
Ayadi invece padre lo diventerà presto. La sua compagna lo aspetta in Belgio. È marocchina e vive a Bruxelles. È incinta da cinque mesi. Lui era appena stato espulso, e appena sono ripresi gli sbarchi ha colto la palla al balzo per tornare in Europa dalla sua famiglia. Ma adesso lo aspettano sei mesi rinchiuso qua dentro e con il rischio del rimpatrio forzato. Suo figlio dovrà nascere senza il padre a fianco. Succede anche questo in Europa, che nel 2011 una legge dello Stato vieti a un padre di vivere accanto al proprio bambino e alla propria donna, in nome dell'interesse superiore della burocrazia e dei timbri sui passaporti. Ma noi, ce lo ricordiamo ancora quanto vale la libertà?