Come ho scritto ieri, la notizia del naufragio di Zarzis è confermata. Il bilancio per ora è di 35 vittime, anche se è ancora presto per capire se davvero la marina tunisina volesse affondare il barcone e se sia solo stata la manovra sbagliata di un comandante inesperto. Ad ogni modo, non è la prima volta che i mari del sud della Tunisia,tra Zarzis e Ras Jedir, si prendono la vita dei viaggiatori diretti in Sicilia. Ne sa qualcosa Mohsen Lihidheb. Lungo quelle stesse spiagge, ogni giorno dopo il turno alle Poste, raccoglie da 15 anni gli oggetti consegnati dal mare. Bottiglie di plastica, tavole da surf, canapi, testuggini, lampade al neon, elmetti, spugne, tronchi di legno, palloncini scoppiati. Mohsen ne ha creato un museo, il Museo della memoria del mare. Una memoria di plastica, fatta di opere d’arte sui paradossi dell’uomo moderno, costruite con i rifiuti recuperati nelle spedizioni ecologiche sul mare. Una delle installazioni, al centro del giardino circondato da mura di bottiglie di plastica colorate, è dedicata a Mamadou. È una montagna di almeno 150 paia di scarpe. Sono scarpe nuove, sono scarpe sportive e giovanili. Roba che non si butta. Sono le scarpe dei naufraghi. L’unico monumento che ricorda la strage che sta avvenendo quaggiù. È qui che è nato il titolo del mio primo libro, "Mamadou va a morire", quando incontrai Mohsen per la prima volta nel 2007. E questo è il mio racconto.