L'aumento del pattugliamento lungo le coste tunisine ha soltanto spostato più a sud le partenze dei giovani sub-sahariani. Partono da Zuwarah a Sabratah, lungo la costa libica occidentale. Lampedusa è a 300 chilometri di mare. Più di una volta è successo che passeurs senza scrupoli abbiano fatto scendere decine di passeggeri sull’isola tunisina di Kerkennah, nelle acque di Sfax, dicendo loro «voilà Lampedusa». Lo raccontano ancora i vecchi nei bar dell’isola. «Buongiorno, buongiorno. Come stai?» dicevano ingenui i nuovi arrivati. È bastata una secca risposta in arabo a gelare gli animi e a capire che no, era ancora Ifriqiya, solo un poco più in là. A loro è andata comunque meglio delle migliaia di morti annegati lungo le rotte del Canale di Sicilia. Molte barche sono ferrivecchi e spesso sono pilotate da gente che non conosce il mare. Tante fanno naufragio nelle prime ore di viaggio. I corpi dei morti talvolta raggiungono Zarzis e l’isola di Djerba al sud della Tunisia. Li tirano su i pescatori. Nelle reti del pesce corpi nudi, mummie in blue jeans, scheletri, alghe e magliette. Sono gli stessi litorali dove Omero condusse i compagni di Ulisse rapiti dai fiori di loto e dove migliaia di turisti ogni mese d’estate vanno in vacanza. Inizia qui il cimitero Mediterraneo.
Lungo quelle stesse spiagge, tra Zarzis e Ras Jedir, ogni giorno dopo il turno alle Poste, Mohsen Lihidheb raccoglie da undici anni gli oggetti consegnati dal mare lungo 150 chilometri di spiagge. Sono soprattutto bottiglie di plastica, ma anche tavole da surf, canapi, testuggini, lampade al neon, elmetti, spugne, tronchi di legno, palloncini scoppiati. Mohsen ne ha creato un museo, il Museo della memoria del mare. Una memoria di plastica, fatta di opere d’arte sui paradossi dell’uomo moderno, costruite con i rifiuti recuperati nelle spedizioni ecologiche sul mare. Una delle installazioni, al centro del giardino circondato da mura di bottiglie di plastica colorate, è dedicata a Mamadou. È una montagna di almeno 150 paia di scarpe. Sono scarpe nuove, sono scarpe sportive e giovanili. Roba che non si butta. Sono le scarpe dei naufraghi. Mohsen le custodisce insieme a un centinaio di camicie, giacche, pantaloni, maglioni e magliette recuperati a riva, strappati dai corpi sepolti nel mare. Sono tutti lavati e appesi in modo ordinato sotto una tettoia. «Sono l’unico monumento che ricorda la strage che sta avvenendo quaggiù» dice Mohsen.
Da qualche anno il mare consegna i corpi dei naufraghi alle spiagge di Zarzis. Fuori dalla città, verso Ben Garden, vicino alla frontiera, esiste addirittura una specie di cimitero segreto, tra le dune. Nessuno sa dove sia, ma è sicuro che ci sia e che vi siano sepolte almeno una sessantina di persone. Prima li portavano nei cimiteri di Zarzis, ma poi sono diventati troppi. E l’odore acre che bruciava nell’aria dopo il passaggio del camion coi corpi tardava a sparire. Mohsen nelle sue spedizioni ha ritrovato tre cadaveri e altri tre pezzi di corpi. La prima volta nell’agosto del 2002.
«Da qualche giorno si diceva in giro del ritrovamento di parecchi cadaveri sulle spiagge di Zarzis. La gente mi chiedeva se avessi trovato la mia parte di naufraghi, scherzando. Ma io non scherzavo affatto. Ogni volta che entravo in acqua sentivo l’angoscia salire allo stomaco. Avanzavo con cautela, ero scalzo, avevo paura di toccare uno dei cadaveri sottacqua. Il mare mi aveva consegnato prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di Sicilia. Poi i messaggi in bottiglia che parlavano della crisi dell’uomo moderno e finalmente le onde mi portavano la prima vittima in carne e ossa della corsa verso l’Occidente. L’avevo visto da lontano. All’inizio sembrava una tartaruga rivolta sul guscio. Quando mi sono accorto che era un essere umano mi sono sentito mancare. Il battito del cuore mi assordava. Era là bocconi, coperto dalle alghe fino al ginocchio e sopra la testa. Taglia media, quel corpo muscoloso in vita era stato consumato dal sole e dalle onde, la pelle beige. Con le lacrime agli occhi ho recitato il Corano e ho pregato Mosé, Cristo e tutti gli dei perché dessero la pace all’anima di Mamadou. Poi ho gridato con tutte le corde della rabbia la mia collera. Non ho voluto fare foto al mio amico, perché il suo corpo, il suo spirito e la sua bellezza appartengono soltanto a dio». Mohsen chiama la polizia, che provvede a raccogliere il cadavere e a dargli degna sepoltura. La sera a casa ordina alla moglie una buona cena per tutta la famiglia. «A casa ne ho parlato solo qualche giorno dopo, ma quella sera volevo festeggiare, perché Mamadou non dormiva più al freddo».
Non sempre le salme si conservano dopo settimane e mesi nel mare. Il 21 ottobre 2005 Mohsen trova un altro Mamadou. «Quella volta non c’era più il corpo, solo un teschio bianco sporco di alghe e le ossa del busto, strette insieme dalla cintola gialla dei pantaloni blu, annodati su se stessi, senza più le ossa delle gambe». Insieme a un amico trasportano i resti dell’uomo su una collina di sabbia e lo interrano recitando versetti coranici rotti sul finale da un grido di rabbia. Su quella stessa spiaggia qualche settimana più tardi Mohsen trova un fischietto di plastica. Gli ispira una poesia, in cui gli domanda perché, perché non ha fischiato contro la barca dei clandestini, perché non ha bloccato la strada dei loro destini. Sarebbe bastato poco, un soffio e un fischio nell’aria. Un cartellino giallo e un cartellino rosso all’occorrenza. Fermi tutti, nessuno si muova, e avrebbe salvato gli sfortunati perduti nell’immenso blu. Eppure quando lo ha raccolto sulla sabbia e ha provato a soffiarci dentro suonava, suonava eccome, lo strillo assordava i timpani, adesso che non ce n’era bisogno. Non hanno fatto il proprio dovere, né il fischietto né l’arbitro, lo sguardo distratto, altrove, complici anche loro dell’ennesima tragedia.
Accanto al mucchio di scarpe al museo, Mamadou e la principessa annegata. Due manichini di legno con indosso i panni dei naufraghi. Cappellino e tuta di nylon lui. Mezzo busto rosa lei. A pochi passi un sole di grosse ampolle al tungsteno e raggi di neon abbracciato da un grande canapo. Mohsen dice che rappresenta l’intelligenza umana contrapposta alla distruzione di massa dei viaggi verso il nord. C’è anche una poesia. «Mamadou dì a tua madre che sei stato il benvenuto, e che abbiamo pregato perché tu sia benedetto. Mamadou racconta al tuo dio, qualunque esso sia, quanto l’uomo soffra e si affligga. Mamadou va’ dai tuoi fratelli e dì loro che la felicità non era altrove e che forse era tutto una maledetta chimera».
Da qualche anno il mare consegna i corpi dei naufraghi alle spiagge di Zarzis. Fuori dalla città, verso Ben Garden, vicino alla frontiera, esiste addirittura una specie di cimitero segreto, tra le dune. Nessuno sa dove sia, ma è sicuro che ci sia e che vi siano sepolte almeno una sessantina di persone. Prima li portavano nei cimiteri di Zarzis, ma poi sono diventati troppi. E l’odore acre che bruciava nell’aria dopo il passaggio del camion coi corpi tardava a sparire. Mohsen nelle sue spedizioni ha ritrovato tre cadaveri e altri tre pezzi di corpi. La prima volta nell’agosto del 2002.
«Da qualche giorno si diceva in giro del ritrovamento di parecchi cadaveri sulle spiagge di Zarzis. La gente mi chiedeva se avessi trovato la mia parte di naufraghi, scherzando. Ma io non scherzavo affatto. Ogni volta che entravo in acqua sentivo l’angoscia salire allo stomaco. Avanzavo con cautela, ero scalzo, avevo paura di toccare uno dei cadaveri sottacqua. Il mare mi aveva consegnato prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di Sicilia. Poi i messaggi in bottiglia che parlavano della crisi dell’uomo moderno e finalmente le onde mi portavano la prima vittima in carne e ossa della corsa verso l’Occidente. L’avevo visto da lontano. All’inizio sembrava una tartaruga rivolta sul guscio. Quando mi sono accorto che era un essere umano mi sono sentito mancare. Il battito del cuore mi assordava. Era là bocconi, coperto dalle alghe fino al ginocchio e sopra la testa. Taglia media, quel corpo muscoloso in vita era stato consumato dal sole e dalle onde, la pelle beige. Con le lacrime agli occhi ho recitato il Corano e ho pregato Mosé, Cristo e tutti gli dei perché dessero la pace all’anima di Mamadou. Poi ho gridato con tutte le corde della rabbia la mia collera. Non ho voluto fare foto al mio amico, perché il suo corpo, il suo spirito e la sua bellezza appartengono soltanto a dio». Mohsen chiama la polizia, che provvede a raccogliere il cadavere e a dargli degna sepoltura. La sera a casa ordina alla moglie una buona cena per tutta la famiglia. «A casa ne ho parlato solo qualche giorno dopo, ma quella sera volevo festeggiare, perché Mamadou non dormiva più al freddo».
Non sempre le salme si conservano dopo settimane e mesi nel mare. Il 21 ottobre 2005 Mohsen trova un altro Mamadou. «Quella volta non c’era più il corpo, solo un teschio bianco sporco di alghe e le ossa del busto, strette insieme dalla cintola gialla dei pantaloni blu, annodati su se stessi, senza più le ossa delle gambe». Insieme a un amico trasportano i resti dell’uomo su una collina di sabbia e lo interrano recitando versetti coranici rotti sul finale da un grido di rabbia. Su quella stessa spiaggia qualche settimana più tardi Mohsen trova un fischietto di plastica. Gli ispira una poesia, in cui gli domanda perché, perché non ha fischiato contro la barca dei clandestini, perché non ha bloccato la strada dei loro destini. Sarebbe bastato poco, un soffio e un fischio nell’aria. Un cartellino giallo e un cartellino rosso all’occorrenza. Fermi tutti, nessuno si muova, e avrebbe salvato gli sfortunati perduti nell’immenso blu. Eppure quando lo ha raccolto sulla sabbia e ha provato a soffiarci dentro suonava, suonava eccome, lo strillo assordava i timpani, adesso che non ce n’era bisogno. Non hanno fatto il proprio dovere, né il fischietto né l’arbitro, lo sguardo distratto, altrove, complici anche loro dell’ennesima tragedia.
Accanto al mucchio di scarpe al museo, Mamadou e la principessa annegata. Due manichini di legno con indosso i panni dei naufraghi. Cappellino e tuta di nylon lui. Mezzo busto rosa lei. A pochi passi un sole di grosse ampolle al tungsteno e raggi di neon abbracciato da un grande canapo. Mohsen dice che rappresenta l’intelligenza umana contrapposta alla distruzione di massa dei viaggi verso il nord. C’è anche una poesia. «Mamadou dì a tua madre che sei stato il benvenuto, e che abbiamo pregato perché tu sia benedetto. Mamadou racconta al tuo dio, qualunque esso sia, quanto l’uomo soffra e si affligga. Mamadou va’ dai tuoi fratelli e dì loro che la felicità non era altrove e che forse era tutto una maledetta chimera».
Per contattare Mohsen Lihidheb: Sea Memories Collection