di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
Dopo l’ultimo respingimento collettivo di 75 rifugiati somali verso Tripoli, Maroni continua a sostenere che i respingimenti non costituirebbero altro che l'attuazione di un accordo firmato dall'allora ministro dell'Interno, Giuliano Amato, con il governo di centrosinistra. Basta leggere il testo dell’accordo firmato a Tripoli da Amato nel dicembre del 2007 ed il protocollo operativo allegato firmato dal capo della polizia Manganelli per verificare, documenti alla mano, che nulla di quanto commesso illecitamente dalle unità militari italiane in occasione dei respingimenti in Libia di migranti intercettati in acque internazionali trova una base giuridica nelle clausole degli accordi del 2007. Il Protocollo in questione non fa infatti riferimento alla riconsegna di migranti imbarcati su unità italiane con il trasbordo su unità libiche, o addirittura con l’ingresso in un porto libico (come avvenuto il 7 ed 8 maggio scorso), e anzi richiama espressamente come limite invalicabile il rispetto dei diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali.
E sarebbe ancora vano ricercare una base giuridica dei respingimenti collettivi verso la Libia nel “Trattato di amicizia” tra Italia e Libia, firmato nel 2008 da Berlusconi con Gheddafi, nel quale, in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare a mare, ci si limita a fare richiamo ai protocolli sottoscritti a Tripoli nel dicembre del 2007 da Amato e da Manganelli.
Basta rileggere le cronache dei respingimenti collettivi di questi mesi, in particolare di quelli praticati nei giorni 7 e 8 maggio dalla Marina Militare (per i quali è pendente un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo) e poi dalla Guardia di Finanza in collaborazione o su segnalazione delle unità maltesi o di FRONTEX, in particolare il 1 luglio 2009 , e poi ancora in più occasioni fino alla tragedia degli eritrei, il 23 agosto , e all’ultimo respingimento del 31 agosto scorso, per verificare le gravi violazioni dei diritto internazionale (e del diritto interno) di cui si sono rese responsabili le autorità politiche e militari italiane, non meno delle autorità maltesi alle quali spetterebbe il coordinamento delle azioni di salvataggio nella vasta zona SAR che Malta pretende ancora come appannaggio del passato.
Per queste violazioni l’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) insieme ad altre associazioni ha presentato esposti alla Commissione Europea ed alla Procura della Repubblica di Roma, che ancora non si sono pronunciate. Adesso, se l’Italia non fornirà una documentazione esaustiva ed una giustificazione legale dei respingimenti alla richiesta di informazioni della Commissione europea, potrebbe aprirsi una procedura di infrazione per violazione del diritto comunitario delle frontiere da parte dell’Italia, oltre che della normativa comunitaria ed interna in materia di asilo.
L’attacco di Maroni all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha avuto un secondo risvolto. "In Libia - ha aggiunto Maroni - c'é la sede dell'Acnur e l'ultimo respingimento è stato fatto in acque internazionali”. L’Acnur in sostanza non avrebbe titolo a denunciare i respingimenti nel Canale di Sicilia perché comunque avrebbe una sede in Libia alla quale potrebbero rivolgersi coloro che la guardia di finanza italiana riconsegna ai militari della Grande Giamahiria. Maroni finge di dimenticare, o cerca di non fare sapere agli italiani, che la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra, che in Libia centinaia di migranti che hanno fatto richiesta di asilo tramite una rappresentanza temporanea dell’ACNUR, che ha potuto visitare solo pochi dei numerosi centri di detenzione nei quali sono rinchiusi i migranti irregolari, continuano ad essere detenuti e a subire violenze e ricatti di ogni genere. Se il problema principale di Maroni, di Berlusconi e dei militari che ne attuano le direttive è il contrasto dell’immigrazione clandestina, cerchino almeno di usare gli ufficiali di collegamento che l’Italia ha piazzato in Libia per scoprire le collusioni tra trafficanti e alte gerarchie della polizia libica, e per offrire a tutti i migranti irregolari trattenuti in quel paese un accesso effettivo alla procedura di asilo o il supporto per un ritorno dignitoso e volontario nei paesi di provenienza.
Il recente accordo tra IOM ed ACNUR, sottoscritto a Tripoli il 26 luglio scorso, per un avvio della collaborazione nella gestione delle richieste di asilo in Libia, resterà come lettera morta fino a quando i libici non consentiranno la libera circolazione dei richiedenti asilo, e soprattutto fino a quando tutti i numerosi centri di detenzione, creati anche con il supporto finanziario dell’Europa e dell’Italia, non saranno accessibili alle agenzie umanitarie, agli avvocati ed ai giornalisti. In nessun caso questo accordo può diventare un alibi per giustificare respingimenti sommari in acque internazionali, che violano il divieto di respingimenti collettivi ed il principio di non refoulement ( respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra. Anche se la Libia sottoscrivesse domani la Convenzione i respingimenti resterebbero illegali fino a quando non fosse stata provata la condizione di “luogo sicuro” per i richiedenti asilo.
Non è difficile prevedere che l’Italia risponderà i modo evasivo alle richieste della Commissione Europea, come non rispetta più, da oltre un anno, le decisioni di condanna o di sospensione delle espulsioni comminate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Quanto affermato dalle autorità di Bruxelles in ordine ai principi ai quali dovrebbero attenersi gli Stati nell’esercizio dei loro poteri sovrani nell’esercizio dei controlli di frontiera, sconfessa già oggi l’operato del governo italiano e potrebbe costituire il precedente, in assenza di una tempestiva giustificazione legale fornita dal ministero dell’Interno, per una condanna esemplare.
"La Commissione sottolinea che qualunque essere umano ha diritto di sottoporre una domanda che gli riconosca lo statuto di rifugiato o la protezione internazionale", ha aggiunto il portavoce della commissione Abbot, ricordando poi quanto aveva già affermato in proposito il commissario alla Giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, in una lettera del 15 luglio scorso al presidente della Commissione europarlamentare Libertà civili, Lopez Aguilar: "Il principio di non-refoulement (non respingimento, ndr), così come è interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'uomo, significa essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal respingere una persona (direttamente o indirettamente) laddove potrebbe correre un rischio reale di essere sottoposta a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti".
Il commissario Barrot nella lettera del 15 luglio sottolineava ancora che "la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'uomo indica che gli atti eseguiti in alto mare da una nave di Stato costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono impegnare la responsabilità dello Stato interessato". Osservazioni queste sugli obblighi di protezione che incombono agli stati appartenenti all’Unione Europea che l’Italia ha ignorato, almeno a partire dal 15 maggio scorso, con conseguenze tragiche. E per chi sopravvive, come nel caso degli ultimi eritrei, è pronto il reato di immigrazione clandestina. Ed è da dimostrare che la strategia di Maroni abbia effettivamente ridotto il numero delle vittime. Per i migranti in Libia si può solo constatare in base alle denunce dei familiari che molti risultano scomparsi nel nulla mentre, malgrado la rigida censura militare, continuano a diffondersi notizie di altre possibili tragedie.
Non si hanno ancora notizie di una imbarcazione in legno con circa 150 migranti che sarebbe partita alcuni giorni fa dalle coste libiche. L'allarme è stato lanciato da un immigrato somalo rinchiuso nel centro di detenzione di Safi a Malta, che venerdì 28 agosto ha ricevuto una telefonata nella quale un migrante che si trovava sull’imbarcazione chiedeva soccorso. Le autorità maltesi hanno detto di non avere intercettato fino ad ora sui radar l'imbarcazione. Si prospetta un'altra tragedia coperta dal silenzio delle autorità di polizia.
L’Unione Europea e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, organismo che fa capo al Consiglio d’Europa, se non prevarranno calcoli di natura politica, dovranno sanzionare l’Italia e Malta per la grave violazione dei doveri di protezione loro incombenti nei confronti di quanti sono intercettati, o meglio salvati, in acque internazionali, e che in ragione della loro provenienza o delle loro condizioni attuali non possono essere respinti verso la Libia. Non si tratta soltanto di richiedenti asilo, ma di tutte quelle persone che - se respinte in Libia - potrebbero essere esposte ad un “trattamento disumano o degradante”, vietato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo.
L’art. 12 del Codice delle frontiere Schengen prevede che le autorità di polizia possano bloccare i migranti che tentano di entrare nel territorio di uno stato Schengen, ma secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia questo potere non può essere esercitato in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali va annoverato il diritto di chiedere asilo ed il diritto a non subire respingimenti collettivi. Chiunque venga raccolto a bordo di una unità battente bandiera italiana in attività di controllo delle frontiere marittime, si trova in territorio italiano e se fa richiesta di asilo, o se si tratta di un minore, non può essere riconsegnato alle autorità di un paese terzo come la Libia, soprattutto quando non può essere stabilita la esatta provenienza delle persone raccolte in mare. Chi contravviene queste regole viola il diritto internazionale e questa stessa violazione andrebbe sanzionata anche dal giudice penale italiano quanto meno come abuso di ufficio, se non come omissione di soccorso o vero e proprio sequestro di persona.
La direttiva comunitaria sulle procedure di asilo e la normativa italiana di attuazione, il decreto legislativo 25 del 2008, pur modificato dal decreto Maroni dello stesso anno, impediscono alla autorità di polizia di frontiera, e dunque anche ai militari imbarcati sulle motovedette che effettuano i pattugliamenti nel canale di Sicilia, qualunque valutazione sulla ammissibilità delle persone alla procedura di asilo. Chiunque manifesta intenzione di chiedere asilo in territorio italiano, come lo sono le unità militari italiane in servizio in acque internazionale, deve essere condotto in un “posto sicuro” in Italia, avere un interprete, ricevere le informazioni sul diritto di asilo ed essere ammesso alla procedura. Sarà poi la commissione territoriale competente che riconoscerà il diritto di asilo, la protezione sussidiaria o la protezione temporanea, oppure pronuncerà un diniego contro il quale l’interessato potrà comunque fare ricorso al giudice e chiedere che questo ricorso abbia effetto sospensivo dell’eventuale allontanamento.
L’art. 10 del Testo Unico sull’immigrazione prevede che non può essere respinto chi per esigenze di soccorso viene ammesso nel territorio nazionale , come lo sono le unità militari battenti bandiera italiana ovunque operino, oppure quando si manifesti con qualunque modalità la volontà di chiedere di asilo. E che non si ripeta ancora la solita menzogna, contenuta in tante relazioni di servizio della polizia di frontiera, che in mare nessuno fa richiesta di asilo, perché dai racconti di decine di naufraghi si può ricavare come questi manifestino subito dopo il salvataggio, in modo inequivoco, la volontà di entrare in Italia per presentare richiesta di asilo, ma sono invece le autorità militari che ignorano queste richieste, magari approfittando dell’assenza di interpreti ufficiali, e riconducono in Libia persone che in quel paese ritorneranno a subire abusi e violenze di ogni genere.
Il principio di non refoulement (non respingimento), sancito dalla Convenzione di Ginevra, vale anche in acque internazionali, ed anche quando c’è il rischio che le persone respinte verso un paese terzo come la Libia siano successivamente deportate verso i paesi di origine nei quali possono subire arresti arbitrari, torture o altri trattamenti disumani o degradanti. Come è noto il leader libico Gheddafi è un grande amico ( oltre che di Berlusconi) del dittatore eritreo e la Libia deporta in Eritrea centinaia di giovani fuggiti per sottrarsi al carcere a tempo indeterminato che in quel paese sanziona chi non vuole subire la leva obbligatoria ( anche per le donne). Carcere e torture sono confermati dai giovani della diaspora eritrea che hanno raggiunto l’Europa ed hanno ottenuto il riconoscimento dello status di asilo.
Attendiamo che i giuristi che decidono, quelli che operano nelle corti internazionali, e, sarebbe tempo, qualche magistrato italiano, trovino la forza e la coerenza per comminare al governo italiano una condanna esemplare. Condanne e procedure di infrazione che riaffermerebbero lo stato di diritto contro il diritto di polizia. Questa volta è in gioco non solo la democrazia in Italia ma la stessa credibilità dell’Unione Europea, troppe volte messa in crisi dai voltafaccia e dagli opportunismi che piegano la difesa dei diritti della persona migrante al bilanciamento dei rapporti diplomatici ed alle esigenze di blocco indiscriminato delle frontiere. Anche a costo di cancellare il diritto di asilo.
Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo