Mentre a Napoli l'Italia ci riprova con un nuovo accordo con la Libia, a Strasburgo si avvicina il momento della verità. L'Italia dei respingimenti da due anni è finita al banco degli imputati presso la Corte europea dei diritti umani. L'udienza finale del processo è fissata per mercoledì prossimo 22 giugno 2011 davanti alla Grande Camera della Corte. A trascinarla in tribunale sono state le vittime delle sue stesse politiche di militarizzazione delle frontiere. Tredici cittadini somali e 11 eritrei, respinti in Libia il 6 maggio del 2009 dopo essere stati soccorsi in mare a sud di Lampedusa. Alla corte hanno detto di essere stati arrestati e torturati nei campi di detenzione libici. Gli stessi campi finanziati in parte dal governo italiano e dalla stessa Unione europea, che attraverso l'intermediazione di Frontex stava gettando le basi per una futura collaborazione con il regime libico prima che scoppiasse l'attuale guerra. Adesso chiedono giustizia. In nome loro e in nome degli almeno 1.409 cittadini stranieri deportati a Tripoli dalle navi della Marina militare italiana nel 2009 e nel 2010. Dalla sentenza che sarà pronunciata dipende il futuro delle politiche europee in materia di frontiere. Riusciranno le ragioni del diritto a valere sulle ragioni politiche?
Anton Giulio Lana è convinto di sì. È lui l'avvocato dei 24 ricorrenti. Il suo ricorso fa appello a tre articoli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. L'articolo 3, che vieta la riammissione in paesi terzi dove esista il rischio di tortura; l'articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e l'articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive. Tutti articoli che sarebbero stati violati, dal momento che i suoi clienti furono respinti in Libia senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d'asilo politico e senza poter presentare un'istanza di ricorso presso un tribunale italiano. E se è vero che i fatti occorsero in acque internazionali, è altrettanto vero che i respingimenti furono operati a bordo di navi italiane, che per legge ricadono sotto la giurisdizione dello Stato italiano.
Il processo va avanti dal dicembre 2009, quando la Corte dichiarò ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati. Quella di mercoledì sarà l'ultima udienza. Dopodiché resterà soltanto da aspettare la sentenza, che arriverà verosimilmente nel giro di qualche mese. La decisione sul caso è stata affidata alla Grande Camera della Corte, come avviene per le questione più delicate. Una condanna porrebbe fine a un'epoca. L'epoca dei respingimenti, inaugurata il 6 maggio 2009, quando le motovedette italiane, impegnate nei soliti pattugliamenti, ricevettero per la prima volta l'ordine di riportare in Libia i 227 naufraghi soccorsi nelle acque del Mediterraneo al largo di Lampedusa.
L'ordine arrivava direttamente dal Ministro dell'Interno italiano, Roberto Maroni, che il giorno dopo definì l'operazione “una svolta storica”, rassicurando gli scettici umanitari: “La Libia fa parte dell’Onu: lì ci sono le Nazioni Unite che possono fare l’accertamento delle persone che richiedono asilo politico”. Evidentemente Maroni mentiva, visto che in quelle stesse ore le Nazioni Unite chiedevano di fermare i respingimenti e di rispettare il diritto d'asilo politico, denunciando come in Libia i respinti venissero abitualmente arrestati, deportati nei campi di detenzione del deserto e lì trattenuti per mesi o anni in modo inumano e degradante. I 24 ricorrenti fecero la stessa fine. E dire che in Europa avrebbero tutti avuto diritto all'asilo politico. Gli 11 eritrei perché disertori in un paese dove la coscrizione militare a tempo indeterminato è diventata una delle armi del regime di Isaias Afewerki per controllare la popolazione. E 13 somali perché cittadini di un paese allo sbando dopo vent'anni di guerra civile.
I 24 ricorrenti oggi sono sparsi in diversi paesi, salvo uno che è morto annegato tentando di nuovo la traversata del Mediterraneo, verso Malta. Alcuni si trovano ancora in Libia, altri sono nei campi profughi in Tunisia, altri ancora hanno tentato la traversata per rifugiarsi in Italia. Sì perché nel frattempo a Tripoli è scoppiata la guerra e chi ha potuto si è messo in salvo. Molti hanno preso la via del mare. E la rotta libica – che nel 2010 aveva completamente cessato di essere utilizzata – è tornata a essere la rotta più battuta del Mediterraneo.
Dall'inizio dell'anno a Lampedusa sono già arrivate 20.000 persone da Tripoli. Di respingimenti per ora non se ne fanno, ma soltanto per via della guerra. Il vecchio amico Gheddafi è diventato il nemico numero uno e gli accordi di cooperazione sono saltati. Tutti però a Roma e a Bruxelles vogliono far ripartire i respingimenti non appena la guerra sarà finita. Dopotutto il Consiglio transitorio degli insorti a Benghazi ha già dato la sua disponibilità. Migliaia di altre persone potrebbero essere di nuovo respinte in Libia nel giro di qualche mese. A meno che la Corte Europea dei diritti umani non decida prima di imporre le ragioni del diritto.
Anton Giulio Lana è convinto di sì. È lui l'avvocato dei 24 ricorrenti. Il suo ricorso fa appello a tre articoli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. L'articolo 3, che vieta la riammissione in paesi terzi dove esista il rischio di tortura; l'articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e l'articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive. Tutti articoli che sarebbero stati violati, dal momento che i suoi clienti furono respinti in Libia senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d'asilo politico e senza poter presentare un'istanza di ricorso presso un tribunale italiano. E se è vero che i fatti occorsero in acque internazionali, è altrettanto vero che i respingimenti furono operati a bordo di navi italiane, che per legge ricadono sotto la giurisdizione dello Stato italiano.
Il processo va avanti dal dicembre 2009, quando la Corte dichiarò ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati. Quella di mercoledì sarà l'ultima udienza. Dopodiché resterà soltanto da aspettare la sentenza, che arriverà verosimilmente nel giro di qualche mese. La decisione sul caso è stata affidata alla Grande Camera della Corte, come avviene per le questione più delicate. Una condanna porrebbe fine a un'epoca. L'epoca dei respingimenti, inaugurata il 6 maggio 2009, quando le motovedette italiane, impegnate nei soliti pattugliamenti, ricevettero per la prima volta l'ordine di riportare in Libia i 227 naufraghi soccorsi nelle acque del Mediterraneo al largo di Lampedusa.
L'ordine arrivava direttamente dal Ministro dell'Interno italiano, Roberto Maroni, che il giorno dopo definì l'operazione “una svolta storica”, rassicurando gli scettici umanitari: “La Libia fa parte dell’Onu: lì ci sono le Nazioni Unite che possono fare l’accertamento delle persone che richiedono asilo politico”. Evidentemente Maroni mentiva, visto che in quelle stesse ore le Nazioni Unite chiedevano di fermare i respingimenti e di rispettare il diritto d'asilo politico, denunciando come in Libia i respinti venissero abitualmente arrestati, deportati nei campi di detenzione del deserto e lì trattenuti per mesi o anni in modo inumano e degradante. I 24 ricorrenti fecero la stessa fine. E dire che in Europa avrebbero tutti avuto diritto all'asilo politico. Gli 11 eritrei perché disertori in un paese dove la coscrizione militare a tempo indeterminato è diventata una delle armi del regime di Isaias Afewerki per controllare la popolazione. E 13 somali perché cittadini di un paese allo sbando dopo vent'anni di guerra civile.
I 24 ricorrenti oggi sono sparsi in diversi paesi, salvo uno che è morto annegato tentando di nuovo la traversata del Mediterraneo, verso Malta. Alcuni si trovano ancora in Libia, altri sono nei campi profughi in Tunisia, altri ancora hanno tentato la traversata per rifugiarsi in Italia. Sì perché nel frattempo a Tripoli è scoppiata la guerra e chi ha potuto si è messo in salvo. Molti hanno preso la via del mare. E la rotta libica – che nel 2010 aveva completamente cessato di essere utilizzata – è tornata a essere la rotta più battuta del Mediterraneo.
Dall'inizio dell'anno a Lampedusa sono già arrivate 20.000 persone da Tripoli. Di respingimenti per ora non se ne fanno, ma soltanto per via della guerra. Il vecchio amico Gheddafi è diventato il nemico numero uno e gli accordi di cooperazione sono saltati. Tutti però a Roma e a Bruxelles vogliono far ripartire i respingimenti non appena la guerra sarà finita. Dopotutto il Consiglio transitorio degli insorti a Benghazi ha già dato la sua disponibilità. Migliaia di altre persone potrebbero essere di nuovo respinte in Libia nel giro di qualche mese. A meno che la Corte Europea dei diritti umani non decida prima di imporre le ragioni del diritto.