"Papà ma quando torni? Perché non vieni oggi?". T. se lo sente dire ogni giorno al telefono. E ogni giorno si inventa una scusa. Dall'altro lato della cornetta c'è un bambino di sette anni, suo figlio. Vive a Padova con la mamma, una ragazza italiana. Suo papà è arrivato in Italia ormai da due mesi, ma fino ad ora non l'ha nemmeno potuto abbracciare. Ancora una volta, a dividere una famiglia c'è la frontiera. Sì perché T. non è la prima volta che viene in Italia. Al contrario, in Italia ci ha vissuto per anni, si è sposato, ha avuto un figlio. Il resto l'ha fatto la frontiera. Prima ha perso i documenti e poi è stato espulso, tre anni fa, nel 2008. Appena la frontiera si è riaperta, non ci ha pensato due volte a bruciarla e a tornare in Italia, che ormai è un po' il suo paese, per riabbracciare il bambino. Con il passaporto sarebbe stato impossibile. Perché con un'espulsione forzata scatta in automatico il divieto di reingresso per cinque anni. Da quando è arrivato però, T. non ha ancora rivisto suo figlio. Perché è rinchiuso in gabbia. Una gabbia come quella che si vede nella fotografia del post, scattata di nascosto da un nostro amico - che ci ha chiesto di rimanere anonimo - dentro il centro di identificazione e espulsione di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta. Perché nei Cie ci finiscono tutti: chi in Italia ci ha appena messo piede per la prima volta e chi in Italia ci ha passato una vita e qui ha la sua famiglia.
T. è rinchiuso là dentro dallo scorso 11 aprile. Tra poco saranno due mesi. E ieri ha ricevuto una brutta notizia. La sua richiesta di un permesso di soggiorno umanitario è stata rigettata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status del rifugiato. E così è stato per tutti gli altri. Dei 98 detenuti del Cie di Caserta, 97 hanno ricevuto ieri il diniego: non avranno nessun documento di protezione umanitaria. Finisce con un niente di fatto il tentativo delle associazioni locali di far rilasciare ai 98 un qualche documento. Soltanto uno di loro ha avuto parere positivo dalla Commissione ed è già stato trasferito. Per gli altri adesso si prospetta un ricorso che sarà depositato dagli avvocati delle associazioni che seguono i casi. C'è tempo entro 15 giorni. Ma la vera scadenza è un'altra: il 20 giugno.
Quel giorno infatti scadono i termini dei primi due mesi di trattenimento di molti dei reclusi di Santa Maria. La legge prevede fino a sei mesi come limite massimo di detenzione, ma con la penuria di posti che c'è in giro nei Cie e con i 200 tunisini ancora bloccati da un mese a Lampedusa, non è da escludere che i 98 di Santa Maria siano semplicemente rilasciati con un foglio di via. Cioè rimessi in libertà sul territorio in italiano, ma senza documenti e con un invito ad andarsene. Ed è quello che sperano tutti i tunisini reclusi a Santa Maria, che in queste ore da Tunisi ricevono confortanti notizie di un gruppo di tunisini rispediti a Roma dall'aeroporto di Cartagine sullo stesso volo che li aveva rimpatriati. Segno che l'accordo con il governo tunisino non funziona più.
E intanto da Lampedusa arrivano altre brutte notizie. Martedì sera infatti quattro reclusi tunisini si sono tagliati le vene con lamette da barba e pezzi di vetro per protesta. Medicati nel poliambulatorio dell'isola, sono stati poi riportati nella sezione del centro di accoglienza dell'isola, che ormai dal 2 maggio funziona come centro di identificazione e espulsione, in una totale sospensione dello stato di diritto, ovvero con 200 tunisini privati della libertà da un mese senza nessuna convalida del giudice. La protesta segue di una settimana lo sciopero della fame dei tunisini reclusi sull'isola e la rivolta finita con il pestaggio e l'arresto del marito di Winny.