Blitz del governo. Il consiglio dei ministri di oggi ha approvato un decreto legge che porta a 18 mesi il limite massimo della reclusione nei centri di identificazione e espulsione, oggi fissato a sei mesi. L'Italia si allinea così al tetto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri. Sarà da vedere adesso quale sarà la reazione alla notizia, delle persone trattenute nei centri di identificazione e espulsione, dove già adesso la tensione è molto alta, come dimostrano le ultime rivolte di Santa Maria Capua Vetere e di Palazzo San Gervasio. Certo bisognerà prima vedere se la norma diventerà definitiva, visto che trattandosi di decreto legge deve essere convertito in legge dal parlamento entro 60 giorni, e con l'aria di crisi politica che tira non si può dire niente. L'unica cosa che appare chiara è che per l'ennesima volta le vite dei soggetti meno rappresentati, e quindi più deboli, finiscono loro malgrado sul piatto della bilancia di un tristissimo gioco politico. La maggioranza è in crisi, e per recuperare fa la voce grossa contro chi non ha i documenti in regola, sperando di fare leva sulle paure della gente. Penoso, soprattutto perché poi dietro le gabbie ci finiscono uomini e donne reali, con le loro storie e le loro relazioni. E allora prima dei commenti tecnici, che rimandiamo a quando saranno più chiari i contenuti del decreto, viene da segnalare da un lato la gravità della cosa, dall'altro l'inerzia con cui viene accettata. Quanto è stato potente l'effetto normalizzante dei Cie in questi anni di respingimenti e espulsioni?
Quando vennero aperti in Italia, con la legge Turco Napolitano del 1998, sotto il nome di Cpt, centri di permanenza temporanea, il limite massimo della privazione della libertà era di 30 giorni. Poi passò a 60 giorni nel 2002 con la Bossi Fini. Il pacchetto sicurezza nel 2009 aveva già triplicato il limite da due a sei mesi. E adesso ancora una volta lo vediamo triplicare, addirittura a 18 mesi, una pena 18 volte superiore a quella prevista per la stessa infrazione dieci anni fa. Diciotto mesi. Parliamo di un anno e mezzo della libertà personale di un individuo. Il bene più prezioso, tanto prezioso che è ritenuto inviolabile dalla nostra Costituzione. Ma per molti di noi sembra andar bene così. Abbiamo interiorizzato l'esistenza di questi luoghi. Ne abbiamo normalizzato il discorso. E il giornalismo disumanizzante e virtualizzato, che in questi anni ci ha raccontato tutto tranne i nomi delle persone e la realtà delle loro storie, ci ha aiutato a normalizzare le categorie di una certa politica. Cosicché oggi ci sembra normale, che una persona possa fare 18 mesi in gabbia perché con un documento scaduto. Ma come ci siamo ridotti?
Leggetevi le storie dei tanti italiani nei Cie, incontrati in questi anni di inchieste sulle espulsioni. E provate a pensare cosa significhi passare 18 mesi dietro una gabbia per chi fuori ha una casa e un lavoro. Per chi fuori ha una moglie e un bambino. Per chi fuori ha tutta la vita davanti perché è un ragazzo di vent'anni appena arrivato nel nostro paese alla ricerca della felicità.
Privare una persona di diciotto mesi della propria libertà per un documento scaduto è semplicemente criminale. Ma dov'è l'Italia migliore? Possibile che non riusciamo a formare dei gruppi, città per città, per monitorare cosa succede nei centri di espulsione e per fare pressione sulla pubblica opinione per la loro chiusura? Possibile che il mondo del sociale non riesca a fare altro se non a infilarsi nei ricchi circuiti della gestione della macchina delle espulsioni? Anziché sabotarla dal di dentro e dal di fuori?
Quando vennero aperti in Italia, con la legge Turco Napolitano del 1998, sotto il nome di Cpt, centri di permanenza temporanea, il limite massimo della privazione della libertà era di 30 giorni. Poi passò a 60 giorni nel 2002 con la Bossi Fini. Il pacchetto sicurezza nel 2009 aveva già triplicato il limite da due a sei mesi. E adesso ancora una volta lo vediamo triplicare, addirittura a 18 mesi, una pena 18 volte superiore a quella prevista per la stessa infrazione dieci anni fa. Diciotto mesi. Parliamo di un anno e mezzo della libertà personale di un individuo. Il bene più prezioso, tanto prezioso che è ritenuto inviolabile dalla nostra Costituzione. Ma per molti di noi sembra andar bene così. Abbiamo interiorizzato l'esistenza di questi luoghi. Ne abbiamo normalizzato il discorso. E il giornalismo disumanizzante e virtualizzato, che in questi anni ci ha raccontato tutto tranne i nomi delle persone e la realtà delle loro storie, ci ha aiutato a normalizzare le categorie di una certa politica. Cosicché oggi ci sembra normale, che una persona possa fare 18 mesi in gabbia perché con un documento scaduto. Ma come ci siamo ridotti?
Leggetevi le storie dei tanti italiani nei Cie, incontrati in questi anni di inchieste sulle espulsioni. E provate a pensare cosa significhi passare 18 mesi dietro una gabbia per chi fuori ha una casa e un lavoro. Per chi fuori ha una moglie e un bambino. Per chi fuori ha tutta la vita davanti perché è un ragazzo di vent'anni appena arrivato nel nostro paese alla ricerca della felicità.
Privare una persona di diciotto mesi della propria libertà per un documento scaduto è semplicemente criminale. Ma dov'è l'Italia migliore? Possibile che non riusciamo a formare dei gruppi, città per città, per monitorare cosa succede nei centri di espulsione e per fare pressione sulla pubblica opinione per la loro chiusura? Possibile che il mondo del sociale non riesca a fare altro se non a infilarsi nei ricchi circuiti della gestione della macchina delle espulsioni? Anziché sabotarla dal di dentro e dal di fuori?