Una nuova democrazia è nata dall'altro lato del mare. E questa foto è il suo ritratto.
Il sito Nawaat l'ha scelta come immagine simbolo del nuovo corso. E noi la rilanciamo sulla rete. È stata scattata il 13 gennaio a Bizerte. Il militare sull'attenti rende onore al passaggio della salma di un ragazzo morto negli scontri di piazza, durante il suo funerale. L'esercito sembra essere il tutore del nuovo ordine. I problemi continuano, ma ormai c'è un governo provvisorio, metà della famiglia del vecchio dittatore è fuggita, e l'altra metà è in carcere assieme a 3.000 poliziotti della vecchia guardia. E dietro le sbarre sono finiti l'ex ministro dell'interno Rafik Belhaj Kacem - lo stesso da cui Maroni era andato a negoziare le espulsioni dei tunisini d'Italia un anno fa - e il capo della sicurezza Ali Seriati, che per anni ha diretto arresti e torture degli oppositori.
E soprattutto è finita la paura. Lo dicevano i duecento tunisini in piazza cinque giornate, a Milano, sabato scorso. Adesso siamo uomini liberi. Non abbiamo più paura. È la grande rivoluzione di un popolo che per 23 anni ha vissuto nel clima del sospetto e del terrore. Ricordo bene che durante i miei viaggi a Tunisi, prima che venissi espulso, la gente aveva paura anche solo a nominare il nome del presidente, per via della pessima fama degli agenti del dakhilia, i servizi segreti. Ed è finita la censura. I quotidiani prima controllati dal governo, iniziano a pubblicare le prime inchieste indipendenti. E poi c'è il nuovo esercito di giornalisti rappresentato dai tanti giovani armati di videofonini capaci di raccontare la piazza in tempo reale, grazie alla democrazia della rete. Certo, la strada è lunga, ma indietro non si torna. Mabruk 3lina, hadi lbidaya w mazal mazal. Benedetti noi, questo è solo l'inizio, ce n'è ancora, ce n'è ancora, come dice una canzone algerina.
Nei 14 gennaio a venire si festeggerà l'anniversario della festa di liberazione dal regime ventennale di Ben Ali. E in quell'occasione saranno scanditi i nomi dei giovani martiri del mese appena trascorso. Insieme a quei nomi dovremmo scandire anche quelli delle centinaia di giovani tunisini morti negli anni Novanta e Duemila tentando di attraversare lo stretto di Sicilia, alla ricerca di quei sogni che il generale Ben Ali aveva reso impossibili in patria. E guardate che insieme ai ragazzi delle periferie di Tunisi e ai disoccupati di Metlaoui e di Gafsa, su quelle stesse barche hanno preso il largo negli anni scorsi sindacalisti e militanti dell'opposizione, sia della sinistra che del partito islamico Nahda.
L'ironia della sorte poi ha voluto che Ben Ali facesse la stessa fine. Harraga. E sì perché anche lui alla fine è scappato dal paese e chissà se ha già fatto in tempo a mettersi in regola con il permesso di soggiorno in Arabia Saudita... Anche se pare che la moglie Laila Trabelsi abbia caricato l'aereo con 45 milioni di euro in lingotti d'oro della banca centrale di Tunisi, e quelli aprono tutte le porte.
Quello che invece non è ancora cambiato è l'atteggiamento dei governi europei verso il popolo tunisino. Il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, in un'intervista a Radio Rai, vede solo il rischio del fondamentalismo, si scusa con Ben Ali per non avergli dato asilo politico, ma soltanto perché non ci è stato chiesto, e infine elogia un altro dittatore, Gheddafi, come modello di governo. Il discorso è sempre lo stesso, le vite degli altri non valgono abbastanza affinché i nostri governi possano sostenere apertamente le loro richieste di libertà. L'Europa si sente assediata, e alla libertà preferisce la sicurezza e i cani da guardia.
L'altra cosa che non è ancora cambiata e che verosimilmente non cambierà, è l'apertura della frontiera italo tunisina. Tanti ragazzi continueranno a attraversare il mare, a rischio della vita, fin quando non sarà possibile per tutti viaggiare in aereo. Le rivolte di questi giorni sono la migliore risposta a chi sostiene la teoria dell'invasione. Niente di più falso. Non esistono paesi pronti a invadere l'Italia. Le maggioranze al contrario, sono pronte a lottare per costruire un futuro sulla propria terra. E quei pochi che decidono di partire, lo fanno a prescindere dalle restrizioni imposte dai paesi di arrivo. Si parte comunque. In un modo o nell'altro. In aereo, con un contratto falso o in gommone. Come i 39 tunisini sbarcati ieri in Sicilia da Sfax e Cap Bon Una vecchia rotta che continua a essere battuta nonostante il nuovo corso della Tunisia.