TORINO – Mimì dorme sul letto, nell'ultima camerata della sezione blu del centro identificazioni e espulsioni (Cie) di Torino. Ha 25 anni, ma parla con un filo di voce: “Non sono un animale, siamo clandestini è vero, ma siamo persone, io non ho fatto niente di male, non dovevano massacrarmi”. È in sciopero della fame da 13 giorni. È recluso da quattro mesi. Chiede di essere liberato. E chiede giustizia. Il 13 settembre 2009 infatti è stato pestato da due alpini di guardia al Cie di Torino. Prima di iniziare il suo racconto mi mostra i denti. Gli manca un premolare. Gliel'hanno spaccato con un pugno in bocca quella sera. Sul caso sta indagando la Procura di Torino. Perché Mimì ha avuto il coraggio di denunciarli.
La sua storia comincia nel 2005, quando riesce a sbarcare via mare in Sicilia. Dopo qualche anno in giro per l'Italia, trova lavoro in un benzinaio a Porcari, in provincia di Lucca. Il 16 giugno 2009 la polizia lo ferma durante un controllo di documenti alla stazione di Porcari. Dalla questura lo spediscono in Calabria, al Cie di Lamezia Terme. Doveva uscire il 16 agosto. Ma una settimana prima, l'8 agosto, entra in vigore il pacchetto sicurezza che prolunga da due a sei mesi il limite del trattenimento nei Cie. Contro la nuova legge, il 14 agosto esplode una grossa protesta nel Cie calabrese, che viene messo a ferro e fuoco. Mimì si beve un flacone di bagnoschiuma e si taglia le braccia con una lametta. Vuole essere portato in ospedale, ma l'unico risultato che ottiene è un trasferimento al Cie di Torino.
Secondo il suo racconto, confermato dai suoi compagni di sezione, la sera del 13 settembre, durante la distribuzione degli psicofarmaci, Mimì viene portato per ultimo in infermeria. Lo vengono a prendere due militari. Uno un po' più grosso, soprannominato Ciccio, e l'altro più magro, con l'accento napoletano. Appena entrano nel corridoio che porta all'infermeria, lontano da sguardi indiscreti, uno dei due gli dà un calcio da dietro e l'altro inizia a colpirlo a manganellate sulla spalla destra e sulle gambe. Un operatore della croce rossa, presente alla scena, si dilegua senza intervenire. Preso dal panico, Mimì scappa nell'ufficio dell'ispettore e si infila sotto la scrivania. Piange, dice “basta!basta!”. Ma i due militari continuano. Lo prendono a calci da una parte e dall'altra del tavolo. Lo colpiscono sul ginocchio destro, dove ha ancora una placca di ferro e le viti per una brutta frattura subita in un incidente nel 2008. Alla fine lo tirano su di peso e lo mettono sulla sedia davanti all'ispettore in turno. L'ispettore dice di fare il bravo e di prendere la terapia. Uno dei militari gli dà uno schiaffone con entrambe le mani sulle due orecchie, mentre lui continua a piangere. Poi lo portano in corridoio. E il militare gli porge il bicchiere di plastica con gli psicofarmaci. Mimì sostiene che fosse almeno il doppio della terapia di psicofarmaci che normalmente assume per dormire. Almeno 60 gocce dice, di Rivotril. Rifiuta di bere. E a quel punto uno dei militari si infila il guanto di pelle e gli dà un rovescio in bocca. Un dente premolare si spacca a metà per la violenza del colpo. Mimì beve la terapia e rientra zoppicante in sezione.
Il giorno dopo, finito l'effetto degli psicofarmaci, si sveglia con forti dolori. I compagni di stanza confermano il suo racconto. “Era pieno di lividi, sulla spalla e sulle gambe”. Mimì decide di sporgere denuncia. Il suo avvocato difensore, Barbara Cattelan, ricorda di averlo incontrato sulla carrozzina, non riusciva a camminare dai colpi che aveva preso. Mimì sostiene che, due giorni dopo, uno dei militari gli propose dei soldi per ritirare la denuncia. Ma lui è andato avanti. La denuncia è stata depositata il 25 settembre 2009 e l'indagine è partita. L'accusa, per il momento contro ignoti, è di lesioni personali semplici. I militari rischiano al massimo una multa. Gli elementi a favore di Mimì sono pochi. Oltre alla sua versione dei fatti c'è soltanto un generico certificato rilasciato dal pronto soccorso dell'ospedale Martini il 16 settembre 2009 che parla di “trauma contusivo al ginocchio destro” e di una “riferita aggressione”. Il pubblico ministero ha sentito Mimì e sta identificando i due militari. Nel frattempo però rimane alto il rischio di un rimpatrio di Mimì.
È detenuto dal 18 giugno 2009. Pochi giorni fa ha ricevuto la notifica della proroga del trattenimento di altri trenta giorni. Da un momento all'altro potrebbe essere rimpatriato in Marocco. E l'inchiesta insabbiarsi. Mimì lo sa. E per questo ha cominciato uno sciopero della fame a oltranza. Da 13 giorni. Niente cibo, solo acqua e caffè, psicofarmaci e sigarette. È l'unico modo per rimanere in Italia. Ridursi in fin di vita e farsi rilasciare per motivi di salute. Passa le giornate allettato. Ha già perso 9 chili. Pesa 55 chili. Non ha smesso invece di imbottirsi di psicofarmaci: 30 gocce di Minias la mattina e 60 di Valium la sera. Non gli restituiranno la libertà che questo paese gli ha tolto. Né diminuiranno l’onta dell'espulsione, di un ritorno da perdente in Marocco, dalla madre e dai fratelli più piccoli. Tuttavia medici e psicologi del Cie non hanno trovato altri rimedi migliori per sostenerlo.