TORINO - Hammami non è uno stinco di santo. Vive in Italia da 10 anni, tre dei quali li ha passati al carcere di Pavia con una dura condanna per spaccio. Dieci anni in cui non ha mai avuto un permesso di soggiorno. Al centro di identificazione e espulsione di Torino l'hanno portato il 22 agosto scorso, all'uscita dal carcere di Pavia, a fine pena. Dice di essere algerino, di Annaba. E sa che le probabilità di essere rimpatriato sono molto scarse, a causa della mancata collaborazione del consolato algerino. Delle due una: “O mi rimpatriano, e non ho niente in contrario, oppure mi rilasciano, io qua dentro sei mesi non resisto, ho già fatto tre anni di galera, ho diritto alla libertà”. E ingoia una
pila. La mette sulla lingua per lungo. Poi chiude la bocca e la butta giù. Poi ne ingoia un'altra. “Guarda giornalista, guarda”. E poi una terza. Se non avessi appena visto le
lastre in infermeria penserei a un gioco di prestigio. Il medico gli ha fatto fare una radiografia dello stomaco. Sotto le costole, si vedono le sagome di una
vite autofilettante di cinque centimetri, due pile, di quelle di 1,5 V e un accendino, di cui però si vede solo la parte metallica. Ma le radiografie sono di ieri. E nel frattempo Hammami si è mangiato altre cinque pile, un tassello di plastica e un pezzo del cellulare. Davanti ai miei occhi. É iniziato tutto ieri. Con la notifica della proroga del trattenimento di altri 60 giorni.
“Io vado avanti, ingoio tutto ogni cinque minuti. O mi rimpatriano o mi fanno uscire, altrimenti m'ammazzo”. In infermeria però non lo porta nessuno. Chiamo un operatore della Croce rossa, ma è lo stesso Hammami a rifiutare: “È inutile, ci sono già stato. Il dottore qui mi visita e mi chiede se voglio un antidolorifico. In ospedale non mi ci portano”. Oltre a ingoiare pile e ferraglie, da due giorni ha anche smesso di mangiare. È in sciopero della fame e dice di essere pronto a andare avanti ad oltranza. Costi quel che costi.