CROTONE - L’hanno riaperto il 28 febbraio 2009 per l’emergenza Lampedusa. Ma il centro di identificazione e espulsione (Cie) di Crotone - situato all’interno dell’area del centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), presso l’ex base aeronautica di Sant’Anna, di fronte all’aeroporto – era già stato in funzione dall’agosto del 2003 all’aprile del 2007. Così quando il 18 febbraio 2009 il Cie di Lampedusa andò a fuoco in seguito alla rivolta degli 800 immigrati che vi erano detenuti da oltre due mesi, Crotone fu una delle prime località dove furono smistati i tunisini detenuti sull’isola per diminuire le tensioni. Ne arrivarono 98, un marocchino e 97 tunisini. L’emergenza Lampedusa è finita, il centro di Crotone però è ancora aperto. Non solo. La Misericordia – che già gestisce il Cara di Crotone - ha vinto la gara d’appalto per la gestione del Cie, con un contratto valido fino al 2012. Il che fa del Cie di Crotone una struttura stabile, e il secondo Cie in Calabria, dopo quello di Lamezia Terme. Ma il Centro presenta notevoli problemi: solo il 10% dei reclusi è stato rimpatriato. E la sua posizione richiede, per i semplici trasferimenti, costi non sostenibili. Insomma, un mezzo fallimento.
La struttura consiste in due vecchie palazzine verdi, dove alloggiavano in passato i militari della base dell’aeronautica. Tutto intorno si trova una doppia recinzione. La prima è una grata di metallo alta quattro metri. La seconda è un muro di cinta di quattro metri sormontato da una rete metallica piegata verso l’interno per evitare le fughe. La capienza è di 100 posti, ricavati al primo e secondo piano delle due palazzine. 25 persone per piano. C’è anche una mensa, in un terzo edificio. Che però non viene più utilizzata per motivi di sicurezza. Il dirigente dell’ufficio immigrazione, ispettore Maria Antonia Spartà, cita episodi di evasioni avvenute proprio durante i trasferimenti dalle camerate alla mensa. “Succedeva che un gruppo creava disordine impegnando le forze dell’ordine in un punto, mentre un altro gruppetto saliva sul tetto della mensa e scavalcava il muro di cinta per poi scappare attraverso i campi”. Più tardi assisto personalmente alla distribuzione dei piatti al cancello della prima palazzina.
All’interno della palazzina si sale attraverso una scala buia. La lampada al neon non funziona. Al primo piano sulla porta verde di una stanza c’è scritto “Chambre al-maut”. Un misto di francese e arabo che significa “camera della morte”. I muri sono schizzati di sangue. Tracce della quotidiana guerra con le zanzare. Questa è una zona molto umida, nelle vicinanze c’è un lago. E anche a mezzogiorno il soffitto delle camerate è ricoperto di decine e decine di insetti. In una stanza i calcinacci si staccano dal muro e cadono a pezzi sul letto dove un ragazzo dorme ancora, probabilmente sotto gli effetti degli psicofarmaci, che qui come in altri Cie sono spesso richiesti dai detenuti e altrettanto spesso somministrati con leggerezza (e senza nessuna visita specialistica) da parte degli enti gestori. Quella che era la sala comune è diventata una moschea. Nella parete c’è un buco dove era incastonata la televisione prima che qualcuno lo rompesse durante una recente rivolta. Al posto dei tavoli, per terra ci sono le coperte stese a mo’ di tappeto per la preghiera. E un corano verde appoggiato nella direzione di Mecca. Nella stanza a fianco c’è un buco nel muro di un metro per due. L’hanno sfondato durante una rivolta subito dopo la riapertura a fine febbraio. L’ispettore Spartà nega che ci siano state rivolte quest’anno. Ma non ha difficoltà a parlare del passato.
“Prima del 2007 – dice - abbiamo avuto fughe, rivolte, gente che saliva sui tetti. Prima era più difficile perché avevamo gruppi omogenei. Quando per esempio organizzavamo con l’Egitto dei voli charter da Crotone o da Lamezia, tenevamo dentro gruppi di 50 o 60 egiziani, che si davano manforte. Hanno sradicato termosifoni dai muri, tavoli, panchine, televisori, tutto quello che si poteva tirare addosso alla polizia, hanno distrutto le pareti e ci hanno lanciato mattoni e calcinacci”
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All’interno della palazzina si sale attraverso una scala buia. La lampada al neon non funziona. Al primo piano sulla porta verde di una stanza c’è scritto “Chambre al-maut”. Un misto di francese e arabo che significa “camera della morte”. I muri sono schizzati di sangue. Tracce della quotidiana guerra con le zanzare. Questa è una zona molto umida, nelle vicinanze c’è un lago. E anche a mezzogiorno il soffitto delle camerate è ricoperto di decine e decine di insetti. In una stanza i calcinacci si staccano dal muro e cadono a pezzi sul letto dove un ragazzo dorme ancora, probabilmente sotto gli effetti degli psicofarmaci, che qui come in altri Cie sono spesso richiesti dai detenuti e altrettanto spesso somministrati con leggerezza (e senza nessuna visita specialistica) da parte degli enti gestori. Quella che era la sala comune è diventata una moschea. Nella parete c’è un buco dove era incastonata la televisione prima che qualcuno lo rompesse durante una recente rivolta. Al posto dei tavoli, per terra ci sono le coperte stese a mo’ di tappeto per la preghiera. E un corano verde appoggiato nella direzione di Mecca. Nella stanza a fianco c’è un buco nel muro di un metro per due. L’hanno sfondato durante una rivolta subito dopo la riapertura a fine febbraio. L’ispettore Spartà nega che ci siano state rivolte quest’anno. Ma non ha difficoltà a parlare del passato.
“Prima del 2007 – dice - abbiamo avuto fughe, rivolte, gente che saliva sui tetti. Prima era più difficile perché avevamo gruppi omogenei. Quando per esempio organizzavamo con l’Egitto dei voli charter da Crotone o da Lamezia, tenevamo dentro gruppi di 50 o 60 egiziani, che si davano manforte. Hanno sradicato termosifoni dai muri, tavoli, panchine, televisori, tutto quello che si poteva tirare addosso alla polizia, hanno distrutto le pareti e ci hanno lanciato mattoni e calcinacci”
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