STOCCOLMA – Si chiamano diritti umani. E in tutta Europa servono a riempirsi la bocca nelle ricorrenze importanti. Per esempio il 18 settembre. Il 18 settembre è una data importante per l’Eritrea. Segna lo spartiacque tra le speranze dell’indipendenza e gli incubi del regime. Era il 2001. Il 18 settembre furono arrestate 15 note personalità del governo che avevano chiesto libere elezioni. La stampa libera fu chiusa e i giornalisti finirono in carcere, insieme a leader religiosi, sospetti oppositori, e fedeli della non autorizzata Chiesa Evangelica. Centinaia di prigionieri politici, ancora oggi detenuti in terribili condizioni e sistematicamente torturati.
L'Unione Europea, attenta al rispetto dei diritti umani, anche quest’anno, nell’ottavo anniversario di quel 18 settembre, ha espresso “profonda preoccupazione” per i continui abusi dei diritti umani in Eritrea, chiedendo al presidente Isayas Afewerki il rilascio di tutti i prigionieri politici e dei 30 giornalisti detenuti secondo l’organizzazione Reporter Senza Frontiere. La presidenza svedese poi è particolarmente sensibile al caso, perché dietro le sbarre c’è finito pure un suo cittadino. Dawit Issac, giornalista con doppia cittadinanza, eritrea e svedese, fondatore del settimanale Setit, imprigionato nel 2001 con l'accusa di essere una spia etiope. La stessa sensibilità però l’Unione europea non sembra mostrarla verso gli esuli eritrei che ogni anno attraversano il Mediterraneo in cerca di asilo.
Il presidente Isayas Afewerki che guidò l'ex colonia italiana nella trentennale guerra per l'indipendenza, oggi sfrutta una irrisolta disputa sul confine con l'Etiopia per mantenere il paese sul piede di guerra. Uomini e donne servono l'esercito a tempo indeterminato. I disertori e i loro familiari rischiano l'arresto e lungo la frontiera la polizia ha l'ordine di sparare a vista contro chi tenta la fuga. Ciononostante gli esuli crescono di giorno in giorno. Diecimila l'anno lasciano clandestinamente l'Eritrea per il Sudan. Da lì alcuni continuano il viaggio verso l'Italia, Malta, l'Egitto e Israele. Nel 2008 a Lampedusa ne sono sbarcati circa 3.000. E in effetti una volta sbarcati ricevono quasi sempre un permesso di soggiorno, per asilo politico o per protezione internazionale.
Ma da maggio le cose sono cambiate. Dei 1.329 respinti in Libia, centinaia erano eritrei. Gli ultimi 43 sono stati respinti lo scorso 8 settembre. Sono ancora in carcere. Come i 75 respinti il primo luglio. Detenuti a tempo indeterminato, come i 600 internati a Misratah dal 2006. Altro che asilo politico. Altro che diritti umani. Perché la presidenza svedese non si rivolge all’Italia e alla Libia, chiedendo di rilasciare i nostri di prigionieri politici?