di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo, seconda parte
2. In attesa che le testimonianze incrociate, e soprattutto le denunce dei parenti delle vittime, molti eritrei profughi in Europa che attendevano l’arrivo dei loro cari, confermino la reale dimensione di questa ennesima “tragedia annunciata”, proviamo a cercare alcune spiegazioni di quanto avvenuto, sulla base dei nuovi ordini impartiti alle unità militari italiane dal ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore, il 15 maggio scorso, degli accordi italo-libici, per i quali il Presidente Berlusconi si accinge a volare a Tripoli, il prossimo 30 agosto, in occasione del primo anniversario del “Trattato di amicizia”, in modo da festeggiare con Gheddafi i risultati della rinnovata collaborazione tra i due paesi.Avevamo scritto nelle scorse settimane come il ministero dell’interno avesse modificato, a partire dal 15 maggio scorso, le regole di ingaggio delle imbarcazioni militari italiane impegnate nelle acque del Canale di Sicilia e delle conseguenze che le nuove regole sui respingimenti e sulla riconsegna dei naufraghi alle autorità libiche, neppure formalmente riconducibili al Decreto ministeriale 14 luglio 2003, normativa che prevedeva limitate ipotesi di “riconduzione delle imbarcazioni verso i porti di partenza”. Avevamo detto delle conseguenze che queste nuove regole di ingaggio avrebbero potuto avere sulla vita dei migranti in fuga dalla Libia, oltre che sulle attività dei pescherecci italiani impegnati in battute di pesca nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, che adesso i libici rivendicano come area di loro esclusiva sovranità, fino al limite delle 73 miglia a nord delle proprie coste, dunque fino a circa 50 miglia a sud di Lampedusa. Al punto che sono già scattati sequestri di pescherecci di Mazara del Vallo sorpresi a pescare in acque che lo scorso anno erano presidiate dalla marina militare italiana. E minacce gravissime di sequestro, e lunga reclusione, sono state comunicate dal governo libico per quanti ci proveranno ancora.
Da anni denunciamo come le inchieste ed i processi a carico di autori di interventi di salvataggio, dal caso della nave umanitaria Cap Anamur del 2004 alla vicenda dei pescatori tunisini alla sbarra nel 2007, avessero drasticamente ridotto gli interventi di salvataggio da parte di unità mercantili, che nella maggior parte dei casi di avvistamento si limitavano a smistare l’allarme alla guardia costiera, senza intervenire immediatamente come le convenzioni a salvaguardia della vita umana a mare avrebbero imposto. Ad Agrigento è ancora recente la condanna nel processo di primo grado di un comandante di un peschereccio che aveva gettato a mare e fatto annegare un migrante che invocava di restare a bordo di quella imbarcazione che avrebbe potuto, anzi dovuto, condurre verso la salvezza, verso un “porto sicuro”, come imposto dalle Convenzioni internazionali sul diritto del mare. In questi ultimi anni, malgrado episodi lodevoli di pescatori che si erano sostituiti persino ai mezzi militari in interventi di salvataggio in condizioni particolarmente avverse, continuavano ad aumentare le testimonianze di migranti che lamentavano il mancato soccorso da parte di unità mercantili che non avevano voluto rallentare il loro percorso.
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