[SECONDA PUNTATA]
AGADEZ, 6 luglio 2009 - Arrivo ad Agadez con un convoglio scortato dai mezzi blindati dell’esercito. È notte. Siamo una cinquantina di veicoli, tra camion, autobus e fuoristrada. La ribellione dei tuareg non è ancora domata. E nel caos che si è generato, hanno preso piede gruppi di banditi che assalgono e derubano chi attraversa le strade del nord del paese. Quando scendo dall’autobus, all’autostazione della Rimbo Transports, vengo subito fermato da un intermediario. Un certo Musa. Gli parlo in arabo senza svelare la mia nazionalità. E dico che cerco un passaggio per la Libia, prima possibile. Il suo arabo è più elementare del mio, e se la beve. Dopo venti minuti a piedi nelle strade buie e polverose di Agadez, facciamo ingresso nell’autostazione. Abderrahman è il titolare dell’agenzia Akakus. Sulla porta è appeso un poster di Gheddafi. Su una lavagnetta sul muro, sono scritti a gesso i prezzi dei trasporti: Dirkou 25.000 franchi (38 euro), Djanet 110.000 (167 euro) Ghat 140.000 (212 euro) Gatrun 150.000 (228 euro) Tamanrasset 110.000 (167 euro). Mi presento. Un ragazzo nigeriano ci interrompe, ma è urgente. Ha il numero di cellulare della sorella in Spagna, che può mandare i soldi del biglietto con Western Union. Ma non sa il prefisso. Glielo dico io. Non prende. Pazienza.
Abderrahman, camicia e pantaloni di jeans, torna al nostro discorso. A Dirkou si va con i camion e sempre più spesso con i pick-up, specie ora che i cinesi hanno trovato il petrolio e si sono affittati metà dei camion che prima facevano i viaggi verso la Libia. Da Dirkou altri mezzi partono per Tumu, in Libia, al prezzo di 35.000 franchi (53 euro). In questo periodo si viaggia solo coi convogli scortati dall’esercito. Troppo pericoloso andare da soli. E di convogli ce n’è uno al mese. L’ultimo è partito due giorni fa. Mi tocca aspettare. Dirkou è meno cara, mi dice, ma devo mettere in conto 5.000 franchi per ogni posto di blocco, per la polizia. Massima sicurezza, dice Musa. La polizia ha la lista dei passeggeri, le macchine vanno in gruppo, hanno i telefoni satellitari, e ci sono pozzi lungo le piste, per l’acqua. Ma la frode e la frode. “Sai che parti per la vita o la morte – dice sorridendo –. Noi ce la mettiamo tutta, ma non possiamo darti la certezza”. Solo adesso vedo che sulla lavagna, sotto i prezzi, c’è scritto: “Bonne chance”. Buona fortuna.
Il giorno dopo incontro Brahim Manzo Diallo, direttore del bi-mensile Aïr Info, stampato in francese e diffuso in 1.500 esemplari da 7 anni in tutto il paese. Lo hanno rilasciato un anno fa, nel febbraio del 2008, dopo quattro mesi di carcere e torture. Il paese era già sotto lo stato di emergenza. E la polizia sospettava che Diallo fosse un membro della ribellione tuareg al nord del paese. Il suo giornale si è spesso occupato dell’emigrazione. Mi parla di un video girato da un poliziotto libico col cellulare in cui si vedono i resti di 150 persone morte disidratate a fianco del camion rimasto in panne nel deserto. Diallo sostiene che a migliaia siano morti nel deserto. Nessuno sa quanti familiari attendono da anni una chiamata dei figli, partiti per l’Europa e mai più tornati. Diallo dice che a Agadez non si è mai vista tanta gente come nel 2008. Il che è in linea con il raddoppio degli arrivi in Sicilia prima dei respingimenti e in particolare con l’aumento dei nigeriani. Nell’ultimo convoglio partito per Dirkou tre giorni prima, c’erano 18 camion diretti in Libia. Con a bordo oltre 3.000 emigranti. Tanti quante le dosi di vaccino contro la meningite che sono state loro somministrate. Già perché a Dirkou c’è una brutta epidemia e si dice che il focolaio sia partito proprio dai ghetti degli immigrati che nell’oasi vivono bloccati in pessime condizioni.
Diallo dice che in tempi di crisi, con la ribellione e il crollo del turismo, gli emigrati hanno salvato l’economia. Tanto più in uno dei paesi più poveri del mondo. Sono ospitati dappertutto. C’è gente che manda la famiglia dai parenti per affittare agli immigrati. E la polizia non è da meno. C’è tutto un tariffario: 5.000 franchi (8 euro) al posto di blocco di Agadez, 1.000 a Turawet, 3.000 all’ingresso di Dirkou e altri 5.000 all’uscita. E i costi raddoppiano per chi non ha documenti. Diallo accende il computer in redazione e mi mostra alcune foto. Si vede un sei ruote carico di un centinaio di nigeriani. In un’altra foto una donna con le lacrime agli occhi. Non voleva partire, racconta il direttore. Gridava “I don’t want to come, I want to go back to Nigeria”. Doveva essere una delle tante donne trafficate. Le costringono a prostituirsi già a Agadez. Nel quartiere di Nassaraoua ad esempio.
Al Nigeria Restaurant incontro diversi ragazzi. Uno di loro è appena tornato da Dirkou. Lo hanno respinto alla frontiera libica. È bloccato a Agadez. Dice di venire dalla regione del delta del Niger. Una zona disastrata dall’inquinamento delle raffinerie, la cui popolazione non ha visto un centesimo di quello che è uno dei più ricchi bacini di petrolio al mondo. A colpirmi è la contropartita che chiede per non partire. “Se domani trovassi un lavoro stabile, diciamo che mi facesse guadagnare 50.000 franchi, tornerei immediatamente in Nigeria”. 50.000 franchi sono 75 euro. Dal tavolo accanto si avvicina Solomon. Ha in mano un cartone di vino, gronda sudore. Vuole vendermi una copia di “Europe by Road”, un film nigeriano sull’emigrazione. Ma il dvd non funziona. Non è l’unico alcolizzato in giro. Il loro viaggio è fallito. E tornare da sconfitti sarebbe un’onta.
Torno all’autostazione. “Stupri, Aids, aggressioni”. Un inquietante cartellone sbiadito dal sole campeggia sul grande parcheggio. Lungo tutto il perimetro ci sono gli uffici delle agenzie di viaggio, un Western Union e quattro negozi che vendono le taniche per il deserto. Sono centinaia le taniche esposte sul piazzale. Ce ne sono da 20 litri, e da cinque. Sono ricoperte di juta, con una corda per legarle al camion, dopo averci scritto su il proprio nome per riconoscerla. Grande e piccola insieme si possono comprare per 3.000 franchi. In un angolo d’ombra conosco Afis del Ghana e Johnson della Liberia. Afis era partito col convoglio di un mese fa, ma il camion si è rotto ed è dovuto tornare. Adesso non sa se ripartire o tornare in Ghana con i pochi soldi rimastigli. Ne hanno sentite tante. Gli autisti li lasciano nel deserto. Indicano loro le flebili luci delle città, all’orizzonte, e dicono di continuare a piedi. Di notte sembra tutto vicino. Ma di giorno scoprono che sono decine e decine di chilometri. Altre volte il problema sono i banditi e la polizia.
Il prossimo convoglio per Dirkou parte dopo tre settimane. Non ho il tempo di aspettare. Decido di raggiungere Arlit. La città dell’uranio. Ancora più a nord, in direzione del posto di frontiera con l’Algeria di Samaka. Per lo sfruttamento dell’uranio in Niger si sta giocando sporco. La scoperta di nuovi giacimenti farà del Niger il secondo produttore al mondo del carburante delle centrali nucleari. I nuovi contratti sono stati concessi alla Cina. E subito dopo è scoppiata la rivolta armata dei ribelli tuareg al nord. Una coincidenza? Che interessi ci sono dietro? La Francia? Da sempre primo importatore dell’uranio nigerino. La Libia? Da sempre alleata dei tuareg? La scoperta di petrolio nel deserto non faciliterà le cose. Soprattutto alla vigilia delle elezioni presidenziali. Alla fine del 2009 si va a votare. E il presidente Tandja ha deciso di presentarsi per il terzo mandato, nonostante la legge lo vieti. Il leader dell’opposizione è finito in carcere per aver protestato. Da Tripoli però Gheddafi ha dato il suo placet all’operazione. In tutto questo, paradossalmente la tensione politica e militare ha solo favorito i trasportatori di emigranti e i contrabbandieri. L’esercito scorta i convogli, compresi i carichi di droga, armi e sigarette, che prima erano spesso assaliti dai banditi. Mentre il netto giro di vite praticato dall’Algeria alle sue frontiere, per contrastare l’emigrazione verso la Spagna, ha spostato i flussi verso la Libia. Che ormai è la meta principale anche per chi parte da Arlit.
[CONTINUA]