[TERZA PUNTATA]
ARLIT, 7 luglio 2009 - Arrivo ad Arlit alle due di pomeriggio. Il caldo è insopportabile, nonostante i tre metri di turbante a proteggere la testa dai raggi cocenti del sole. Arlit è sorta nel 1971 dopo la scoperta dell’uranio da parte delle francesi Sominair e Cominak. Le miniere sono alle porte della città e impiegano 2.000 dei suoi 100.000 abitanti. La sera stessa trovo un passaggio per la Libia. L’intermediario è un algerino. Si fa chiamare Zidane, ha 34 anni. Lo incontro al bar “Le Coin”. Ci scoliamo un paio di birre gelide. In tre giorni può farmi arrivare fino a Ubari. L’autista è fidato. Un tuareg di Arlit sposato con una libica, che vive a Ubari. Lo incontro la mattina dopo. Si chiama Brahim. Mi guarda con sospetto, vuole sapere con insistenza la mia nazionalità. Dico che non è importante. Ma alla fine gli affari sono affari. Vuole 150.000 franchi (228 euro). Si parte nel giro di una settimana. Deve riempire i 40 posti del pick-up. Mi prendo 24 ore per decidere.
Più tardi vado al ghetto dei maliani. Djibril è un signore anziano, capelli bianchi, due spessi occhiali da vista e un boubou azzurro. Sfoglia tra le dita un mazzo di fogli da 10.000 franchi. Lo saluto. Nasconde i soldi in tasca e mi invita a sedere. È il presidente dell’associazione dei maliani di Arlit, mi spiega mentre biascica un pezzo della carne alla brace che tiene nell’altra mano su un pezzo di carta di un sacco di cemento. Cerco degli amici burkinabé. Non ci sono problemi dice. E chiede a un suo aiutante di portarmi in motorino all’appartamento dove sono ospitati. Sono una ventina. Ragazzi del Senegal, del Burkina, del Mali, del Gambia. Vanno tutti in Italia. O almeno sperano, perché in realtà non hanno la più pallida idea di dove stiano andando. Sanno solo che è a nord.
Per pranzo mi aspetta il professor Ghaliou. Dopo il notiziario francese di TV5, ci raggiungono due vicini di casa. Outhman vive metà dell’anno in Algeria. Lavora nelle serre a Illizi. Ogni anno va e torna attraversando il deserto. A Djanet andò nel 2000. Djanet si trova in Algeria, a 80 km dal confine libico. Chi ha meno soldi, per andare in Libia passa da lì. Gli autisti ti lasciano fuori dalla città. E poi una guida ti accompagna a piedi sulla montagna. Sono 60 km di marcia. E poi altri 20 km di deserto, prima di entrare nella città libica di Birket, vicino Ghat. Furono assaliti dai banditi. Gli portarono via fino all’ultimo centesimo. Outhman è convinto che quella di Djanet sia la rotta più pericolosa. Una rotta isolata. Piena di banditi, e disseminata di morti. E se lo dice lui c’è da credergli. Per alcuni anni in Algeria ha lavorato come intermediario per i nigeriani diretti in Marocco e in Spagna. Sospira. “L’aventure est comme un virus”. L’avventura è come una malattia. Ripenso ai tre ragazzi burkinabé ospiti a casa del vecchio Djibril. Non avevano mai lasciato prima il loro villaggio, nelle campagne di Tenkodogo. E non hanno la più pallida idea dei pericoli che li aspettano lungo la rotta. Ma non torneranno a casa prima di avercela fatta. Fosse anche tra vent’anni. Il mio viaggio a Ubari invece è annullato.