Quando arriviamo in città è già notte. Taher mi aspetta sotto il minareto della moschea. Per le strade fa buio pesto. Non ci sono lampioni. Tutto tace. I sandali affondano nella fina sabbia delle strade. Dopo una cena frugale, andiamo in moto a casa dello zio, Oumar, approfittando dell’oscurità per non destare sospetti. I tre bambini già dormono sugli stuoini sotto la tettoia al centro del cortile di sabbia della casa, tra le capre. La moglie ci prepara un tè. Le ultime due macchine sono partire ieri. Da buon tuareg, Oumar è di poche parole, ma non risparmia informazioni utili. I passeggeri erano 50, tutti nigerini. Vanno a Ghat, in Libia. Sono cinque giorni di viaggio: 1.300 km. Sulla pista ci sono 3 pozzi per fare rifornimento d’acqua. Oumar è un intermediario. Procaccia clienti agli autisti e si tiene una percentuale. Cinquemila franchi a passeggero, circa 8 euro. Ha iniziato come “apprenti”. Aiutava il fratello nel trasporto di merce contrabbandata da e verso l’Algeria. La frontiera algerina dista 400 km. E qua tutta la merce è contrabbandata. Lo zucchero, l’olio, i ricambi per il motore. Con i soldi dei clienti ha costruito la casa dove vive. Soltanto nel 2008 ha fatto partire 400 persone. All’inizio erano solo nigerini, poi il passaparola ha portato anche gli stranieri. Tutta la città vive della frode. Ogni famiglia ha un fuoristrada. E il trasporto degli “exodants” è solo una piccola fetta del business. Nel deserto passa di tutto: sigarette, armi, droga. Il cognato di Taher ad esempio lavora con la cocaina. La droga sbarca in Nigeria e loro – attraverso il Sahara – la portano fino in Egitto. Hanno macchine nuove di pacca. Per non correre il rischio di rimanere in panne. Per non parlare del traffico d’armi, verso le basi di al-Qaeda in Algeria, ma anche verso il Chad e il Sudan.
Le piste nel deserto che da Tchin Tabaraden portano in Libia sono state scoperte negli anni Novanta, grazie alle milizie armate dei ribelli tuareg, che all’epoca si addestravano in Libia e in Libia si rifornivano di armi. Ghat non è la sola destinazione degli autisti diretti in Libia. Yousuf ha già 10 passeggeri pronti a partire per Ubari, 300 km oltre il confine. Gliene mancano 25 per riempire il carico. Fa il viaggio una volta ogni tre mesi. Porta in Libia gli exodants e riporta in Niger quelli che rientrano dalla Libia, carichi di valigie e a volte accompagnati dai familiari. Ghaliou invece fa l’intermediario per un autista che viaggia su Awaynat. Yousuf fa questo lavoro dal 1999. Mi mostra la patente rosa stropicciata, rilasciata nel 1998. Lavorano molto in autunno. A settembre partono gli stagionali. Vanno a lavorare in Libia e Algeria. E ritornano a febbraio, prima del grande caldo, perché nei villaggi in Niger devono lavorare la terra nella stagione delle piogge, tra giugno e agosto. I viaggi sono molto costosi. Fanno 100.000 franchi (152 euro) dietro il pick-up e 250.000 (380 euro) in cabina. Un passaporto costa molto meno. Circa 25.000 franchi (38 euro). Ma nei villaggi non sanno nemmeno cosa sia un passaporto. Molti sono analfabeti, i loro padri erano nomadi. Molti non sanno nemmeno cosa sia un documento.
Gli incidenti non mancano. Mahmud è sopravvissuto sei giorni nel deserto. Era il luglio del 1998. Erano in due auto, la prima rimase in panne. L’autista se ne andò con l’altra e abbandonò i 35 passeggeri. Li venne a riprendere il fratello, avvisato, ma soltanto sei giorni dopo. Si salvarono bevendo l’acqua del radiatore. E grazie alle coperte che avevano portato per la notte. Le usarono per farsi ombra durante il giorno. Quattro ghanesi morirono disidratati. In quello stesso viaggio, Mahmud racconta di aver visto i resti di tre persone, nei pressi di uno dei pozzi. E altri 12 morti vicino a una macchina abbandonata tra le dune. Gli incidenti continuano. L’ultimo di cui si ha notizia a Tchinta, ha fatto 15 morti, sei mesi fa. Tra panne, incidenti e attacchi di banditi e predoni, i morti sarebbero centinaia ogni anno, compresi gli autisti. A fare questa stima è Inamoud, un tuareg membro dell’associazione Timidria, che in Niger lotta contro la schiavitù, ancora diffusa nei piccoli villaggi presso i tuareg rossi e gli arabi, nonostante la recente sentenza di condanna pronunciata dalla Corte africana di giustizia per il caso Khadijatou.
Il giorno dopo, Inamoud mi porta al cantiere della nuova sede di Timidria. Andiamo in moto, zigzagando tra le mucche sdraiate in mezzo alle strade di sabbia. Abbiamo appuntamento con Aleghid. Attivista per i diritti umani, ma intermediario di professione. È stato lui a denunciare alla polizia un autista che stava per portare in Libia sette bambini di dieci anni non accompagnati dai genitori. Accade spesso, dice, ma ce ne accorgiamo solo quando li vediamo ritornare dalla Libia. Vanno a lavorare. Li mandano i genitori. Dalle campagne. Perché non ce la fanno a crescerli e non vedono l’utilità di mandarli a scuola. Si tratta di un precedente importante. Già perché tutto questo non avviene nella clandestinità. Ogni autista stila una lista dei passeggeri e la consegna alla polizia e al comune. Madab conferma tutto. è l’impiegato al Comune che si occupa di riscuotere la tassa di 1.000 franchi (poco più di un euro) a passeggero. Ufficialmente l’autista dichiara di essere destinato ad Arlit. Anche se ci sono stranieri a bordo, non c’è niente di illegale. In tutta l’Africa occidentale vige la libera circolazione. Per un ghanese o un nigeriano, è sufficiente la carta d’identità. Le liste servono a limitare gli incidenti. In passato accadeva spesso che gli autisti abbandonassero i passeggeri in pieno deserto. Accade ancora, ma più raramente, perché con le liste i familiari possono rintracciare gli autisti e denunciarli. L’indomani mattina riprendo la strada per Agadez.
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