ROSARNO - Quando esco dall'hotel Vittoria, sono le 5 e 42. La reception è vuota. Meglio così, non dovrò dare spiegazioni su questa passeggiata notturna. Fuori è ancora buio. La statale 18 è illuminata dai lampioni. Dopo un quarto d'ora a piedi raggiungo la Rognetta, la vecchia fabbrica occupata dai braccianti immigrati. La strada è deserta. Non ci sono marciapiedi. Si cammina tra le macchine parcheggiate e le serrande dei negozi chiusi, sfiorati dai camion in corsa. Un gruppetto di ragazzi allungare il passo sulla strada. Decido di seguirli. All'incrocio, davanti al supermercato, svoltano a destra, in una strada buia. Non ci sono lampioni. E' buio pesto. Decido lo stesso di inoltrarmi, oltre quella cortina nera, dopo un attimo di esitazione.
Nel buio non si distingue niente. Prima dell'alba i braccianti non hanno una forma. Solo un rumore. Quello del ciampettare degli stivali di plastica sull'asfalto bagnato di pioggia. E del frusciare dei sacchettini di plastica con dentro i mandarini e il panino per il pranzo. Il raro passaggio di qualche automobile in corsa, illumina i loro cappotti. Poi scompaiono di nuovo nell'oscurità. La strada sembra non portare da nessuna parte, decido di tornare indietro. Ma sui miei passi incontro altri due braccianti. Decido di avvicinarli. Mi presento in francese.
Non riesco nemmeno a distinguere i tratti del viso di Touré. Viene dalla Guinea Conakry. E' arrivato in Italia un anno e mezzo fa. Con un visto turistico che ha lasciato scadere, accumulando nel frattempo due fogli di via. A Roma viveva al dormitorio della Caritas, in via Marsala. Poi ha deciso di scendere verso la Calabria. Aveva sentito dire che qua si lavorava bene. Ma non è così. Stamattina ha appuntamento nel giardino dove ha lavorato ieri. Ci va a piedi per risparmiare i due euro e cinquanta che si prende l'autista. Ma se piove dovrà tornare indietro. Senza paga. L'autista lo chiama “capo nero”. Sono africani che vivono qui stabilmente, o che hanno dei buoni contatti coi padroni dei campi, e che provvedono a fornire la manodopera per la raccolta. Touré è la prima volta che viene a Rosarno. A Conakry studiava economia, all'Università. Ha lasciato gli studi per partire. Aveva provato a chiedere un visto a Stati Uniti e Germania, ma è stato inutile.
Questo giovane guineano mi conferma che non sempre il lavoro è pagato. A lui è successo una settimana fa. A fine giornata non li volevano pagare. Hanno protestato. E il proprietario ha impugnato l'accetta minacciando di ammazzare qualcuno. Allora hanno lasciato perdere. Altri raccontano di essere stati minacciati con pistole e fucili. Ma sono casi rari. Touré vorrebbe mettere dei soldi da parte e andare a Milano, per continuare i suoi studi in economia. Quando ci salutiamo, le prime luci dell'alba mi mostrano finalmente i suoi lineamenti del viso. Lui continua a piedi in una strada sterrata. Mancano ancora due chilometri alla tenuta. Io torno indietro. La rotonda, che prima mi sembrava vuota, è in realtà occupata da una quarantina di africani, seduti sul guardrail e pronti per andare a lavorare. Nascosti sotto cappotti e berretti di lana, indossano tutti stivali verdi di gomma, nei quali portano infilati i pantaloni sporchi di terra e lavoro. Ognuno ha appresso un sacchettino di plastica con il pranzo. Parlano malinke, bambara, wolof. Sono le lingue dei campi rosarnesi di questo inverno.
Ma in verità i braccianti più numerosi sono gli est europei. Ukraini, polacchi, bulgari e rumeni. Vivono in case affittate, in città. Somaticamente non danno nell'occhio. Ma ogni mattina scendono in piazza anche loro, sulla nazionale, in centro, per andare a raccogliere agrumi. Alle otto del mattino ce ne sono almeno 80. Dai due lati della strada. Guardo meglio e riconosco Mohamed, il ragazzo marocchino di Sidi Ma'rouf che avevo conosciuto il giorno prima alla Rognetta. Lo vado a salutare. Accanto a lui c'è anche Tareq e Hicham. I ragazzi di Sidi Ma'ruf che avevo conosciuto ieri alla Fabrica Ancienne. Ci fermiamo a parlare. Ne esce una improbabile discussione sui rosarnesi, Cartesio e la poesia araba. Hicham ha studiato al liceo, a Baida'. Conosce Battuta, Darwish, Qabbani e Mahfuz. Dice che anche lui, nel tempo libero scrive poesie. Poi cambia discorso. Dice che nei campi non hanno problemi, che i problemi sono la notte, con i giovani di Rosarno. “Arrivano in due sugli scooter e si divertono a tirare sassi e bottiglie vuote”, racconta. Ha sentito parlare dei due ivoriani a cui hanno sparato, a dicembre. Per questo non escono quando fa buio. Sorride, la fronte coperta dal cappellino di lana. Ha il viso sbarbato. Ogni tanto si ferma una Panda. Qualcuno sale. Soprattutto i bulgari. Il gruppetto dei marocchini invece è ancora tutto lì. Probabilmente anche oggi non lavoreranno. (27/01/09)
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