TAMANRASSET - In questa stagione di venti di sabbia il cielo di Tamanrasset (o Tamenghest, in tamashek, una delle varianti del berbero parlata dai tuareg), è bianco latte. Il grande caldo qui, a 1400 metri di altitudine, non è ancora arrivato. Il sole pesa sull’asfalto appena fatto e sulle nuove file di case in cemento inadatte alla violenza del Sahara, ma le folate di vento polveroso daranno, ancora per pochi giorni, sollievo alla città. Capoluogo dell’ Hoggar, terra di Tin Hinan, la mitica regina dei tuareg (o forse un re, rivelano le ultime ricerche britanniche), Tamanrasset (2000 km a sud di Algeri) è da sempre il punto d’incontro delle grandi carovane in arrivo da Agades e Arlit (Niger), Gao e Bamako (Mali). Terra di nomadi, terra di passaggio, lungo la ’pista dei carri’ che nel VII secolo univa l’Atlantico a Tripoli. Oggi, quelle stesse rotte, quelle stesse piste di sabbia incandescente, sono percorse ogni anno da migliaia di migranti che dai paesi del Sahel e dell’Africa nera arrivano in Maghreb con la speranza di raggiungere la costa. Da quando nel 2000, dopo un decennio di apertura, il leader libico Muammar Gheddafi ha stretto accordi con Italia e Ue e proclamato il pugno di ferro contro l’immigrazione irregolare, l’Algeria, via Tamanrasset, è diventata una delle rotta principali per chi punta al Mediterraneo e al sogno europeo. Migranti di almeno 30 nazionalità non soltanto africane, ma anche asiatiche, convivono, o meglio sopravvivono, a Tam. Comunità anglofone e francofone, cattolici e musulmani, in arrivo da Niger e Mali, Nigeria, poi Camerun, Angola, Liberia, Costa d’Avorio, Mauritania, Burkina Faso fino a Bangladesh, India e Pakistan, transitano dall’estremo sud algerino. Un passaggio lungo anche due o tre anni, necessari per raccogliere quei pochi euro fondamentali per compiere un nuovo passo verso Nord.
Che sia verso Djanet, in direzione della Libia, o In Salah – Ghardaia, per proseguire poi ad Algeri, Annaba, Orano. Che sia nei camion, nei pick up Toyota o negli autobus di linea. Nella ‘capitale del sud’ basta svoltare un angolo per sentirsi in un attimo nel cuore dell’Africa. Basta uscire dalla strada principale, punteggiata da negozietti di artigianato tuareg per i rari turisti che scelgono il Sahara algerino. Difficile per ‘un suad’, un nero, come li chiamano gli algerini, arabi o berberi che siano, nascondersi tra i 50 mila tuareg di Tam e le poche migliaia di abitanti fuggiti dalle violenze del terrorismo di matrice islamica che negli anni ’90 ha insanguinato soprattutto il Nord del paese maghrebino. Centinaia di famiglie, della Cabilia, Setif e Jijel (nord-est) hanno scelto la pace del Sahara e oggi detengono la maggior parte dei ristoranti della città. Come fare a sfuggire alle retate della polizia algerina? Come evitare di farsi arrestare e rinchiudere nel centro di detenzione di Tam prima di essere abbandonati in pieno deserto lungo il confine con il Mali, a TinZaouatine, o il Niger, a In Ghezzam? “Basta trasformarsi in un’ombra’’, ci dice Amadou.
Ghatta El Oued. Amadou sorride, seduto con i suoi compagni di avventura su uno dei muretti roventi lungo il Oued (torrente) che divide in due la città. Un fiume fantasma. L’acqua è un ricordo ormai lontano di mesi e nell’enorme spianata vagano le inarrestabili capre dalle macchie rosse sul dorso per il troppo grattarsi sui muri di terra delle case. Sembra quasi di vedere le vacche sacre dell’India. Se ne trovano ovunque, arrampicate sui cespugli e sui terrazzi, per le strade. Alla continua ricerca di qualcosa di commestibile, le ‘capre rosse’ mangiano qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro: perfino i sacchetti di plastica che svolazzano per tutta la capitale del sud. Una vera calamità per l’Algeria, ‘risolta’ dal ministro dell’ambiente, Cherif Rahmani, con un cambio di colore: da neri a colorati, ovviamente sempre di plastica. Anche i camion-cisterna che trasportano fino a qui benzina e gas parcheggiano insieme ai dromedari, nel letto del fiume. È nel quartiere di ‘Ghatta El Oued’ (in arabo, aldilà del torrente) che vivono la maggior parte dei migranti. Quasi mai infrangono questo confine immaginario.
“Non bisogna creare problemi e restare nella nostra zona’’, ci dice in inglese Amadou, “insomma vivere come ombre’’. Ma “in realtà conta soltanto la fortuna’’, continua, mentre gli altri, tutti in arrivo dalla Nigeria, preferiscono restare in silenzio. Alcuni si allontanano come intimoriti da questi bianchi, strani turisti del Ghatta. “Ci sono periodi in cui la polizia ci lascia in pace e altri in cui tutti i giorni arresta qualcuno. Poi arriva il momento delle ‘grandi pulizie’ e ci prendono a centinaia. Io sono già andato e tornato da In Ghezam (frontiera con Niger, 650 km a sud di Algeri) tre volte’’. Amadou ha 23 anni e ha voglia di parlare. Dalla doppia tasca dei suoi pantaloni tira fuori il suo prezioso pacchetto di carte. Ci mostra orgoglioso la sua carta d’identità, il suo diploma. È un ingegnere informatico. “Lavoravo per una società cinese’’.
Allora perché partire? Perché rischiare così tanto? “A casa eravamo in otto e sono l’unico uomo di famiglia. Sono partito per poter mangiare bene, per potermi vestire. Quando decidevo di comprare una camicia, per tutto l’anno nessun altro avrebbe potuto permettersene una’’. È dalle sei di questa mattina che Amadoù è seduto sul suo muretto lungo il Oued. Qui arrivano i ‘cacciatori di teste’. Da qui passa chi ha bisogno di manodopera a basso costo. Nell’ultimo anno decine di case sono spuntate nei nuovi quartieri di cemento alla periferia della città. È qui che vengono impiegati la maggior parte degli immigrati. Si possono guadagnare dai 300 ai 500 dinari al giorno (dai 3 ai 5 euro) se si è particolarmente veloci e specializzati. Un algerino ne prende almeno 1000. Anche gli edifici pubblici vengono costruiti con i ‘suadine’ . Mai però impiegati direttamente dallo Stato, che appalta i lavori a imprenditori locali. Vicino ai cantieri, alcune donne, le poche che sono riuscite a restare fuori dal giro della prostituzione, si sono organizzate e preparano piatti tipici del paese di origine di chi lavora in quella zona.
Si, perchè a Tam, ogni nazionalità ha rigorosamente il suo spazio, uno Charman (capo tribù), una cassa comune, la sua roccia su cui dormire. Ci si mescola di rado. La divisione più netta è tra anglofoni e francofoni. Eletto periodicamente, lo Charman guida la comunità. Prende le decisioni importanti. Decide come amministrare i soldi del gruppo: usati per riportare un malato a casa, nel suo paese, o concedere un prestito a chi vuole continuare il cammino verso Nord. “Pochi giorni fa un camerunese è impazzito’’, ci spiegano alcuni ragazzi al lavoro in un cantiere. “Si era fumato roba non buona. Non poteva più stare qui. Abbiamo raccolto 20 mila dinari ed è partito accompagnato da un amico’’. Faraone, Charman del Cameron, decide di aprirci le porte del gruppo. In questi giorni è impegnato nel riportare la pace tra la sua comunità e quella della Nigeria. “Abbiamo già abbastanza problemi. Le guerre tra noi attirano soltanto la polizia’’, ci racconta Willy, uomo fedele di Faraone. Uno schiaffo, si dice in giro, ha fatto emergere la tradizionale rivalità tra due paesi. Tra i nigeriani che controllano il mercato della droga e “vogliono affermarsi come gruppo dominante e i Camerunesi, che non si vogliono lasciar fregare’’. Risultato: sei camerunesi rapiti e rappresaglie nel ghetto dei nigeriani, diversi feriti e alcuni fermi della polizia.
La wilaya (prefettura) di Tamanrasset, che si estende su un territorio superiore a quello della Francia, detiene il triste record del più alto numero di arresti tra gli immigrati di tutta l’Algeria. Nel primo trimestre del 2008, secondo i dati della gendarmeria, 150 persone sono state fermate soltanto lungo la strada tra Tam e Ghardaia (500 km a sud di Algeri). In 400 sono stati presi nella stessa zona nel 2007. È invece impossibile avere un numero esatto degli arresti in città, “già quasi un migliaio dall’inizio del 2008’’, dicono gli stessi migranti. Inoltre dalla capitale dei Tuareg transitano quasi tutti i sans papiers arrestati nelle altre regioni. “L’ultima grande deportazione verso TinZaouatine risale a circa un mese fa’’, spiega Willy. “Hanno caricato su cinque camion circa 600 persone’’. “Accumulano nel centro di detenzione di Tam il maggior numero di persone. Poi organizzano i convogli diretti alle frontiere. I camion li affittano ed è più conveniente prenderne tanti tutti insieme, non partono mai meno di cinque veicoli’’.
Willy ha lasciato Yaoundé cinque anni fa ed è già stato arrestato almeno dieci volte. “Veramente, non mi ricordo nemmeno più quante. L’ultima volta mi hanno preso a un posto di blocco a In Salah (1000 km a nord). Mi hanno riportato subito al centro di detenzione di Tam’’. Ogni giorno due mele ciascuno e una scatola di latte in polvere ogni cinque detenuti. Poi via, verso ‘la città dove Dio non esiste’, come chiamano i migranti l’oasi di TinZaouatine, lontana più di 400 km da Tam e 300 km da Kidal. “Mi hanno preso per colpa dei documenti fatti male. Ero su un autobus di linea diretto verso Ghardaia. ’’ Partito da Yaoundé nel settembre del 2004, con mille euro nascosti un po’ nei calzini, nella cintura e nell’apposita doppia tasca dei pantaloni, Willy è arrivato in Algeria più di due anni fa. Senza più un soldo, adesso deve rifare tutto da capo. Deve raccogliere il denaro per il viaggio e per i documenti falsi: 1500 dinari (15 euro) per una carta da rifugiato, fino a 50 euro per un passaporto con una foto visibile e un timbro ben fatto. Il tutto rigorosamente maliano. “Non usiamo mai documenti algerini. Tutti cercano dei documenti del Mali’’. Unico paese dell’area a cui l’Algeria non chiede il visto d’ingresso. Mentre parla, Willy ci accompagna a ‘casa sua’.
Le strade diventano terra, poi pietra. Nessuna costruzione, non un’anima viva. Soltanto alcuni avvoltoi volano in cerchio sulle nostre teste. In lontananza qualche ‘ombra’ tra le montagne. “Ecco, quello è lo Sheraton! Un po’ più in là c’è l’Hilton!’’. La maggior parte degli ‘aventuriers’ vive qui, tra le rocce alla periferia della città. “Qui, dove non esistono né la pioggia né il sole’’. Con un cappellino da baseball calcato sulla fronte, Willy cerca di nascondere la ferita che ha sull’occhio. “Volevo fare il calciatore. In Cameron giocavo. Adesso mi sono specializzato nelle mattonelle’’. Sorride Willy ma non vuole parlare dell’incidente. “No, non è stata la polizia. Anche se a ogni arresto ci accolgono con le bastonate’’. “Ho avuto un viaggio difficile ma non sono mai stato aggredito. Sono stato solo un po’ stupido’’. Il suo viaggio attraverso Nigeria e Niger è durato più di due anni. “Chi conosce la strada può arrivare direttamente fino ad Arlit. (nord Niger). Io invece prima di partire non sapevo nulla, ho fatto tappa per tappa. Dei percorsi a piedi…’’. Yaoundé-Ngaoundurè (Cameron), in tre giorni per 1500 dinari (15 euro). Poi su fino a Garoua (5 euro), vicino alla frontiera con la Nigeria. E ancora Garoua- Manduguri-Bauchi-Kano-Maradi (Niger)-Agades-Arlit. Ultima tappa, a bordo di una Toyota, Arlit-Tam per circa 5000 dinari (50 euro) e tre giorni di viaggio. “Ne basterebbe uno solo ma a volte bisogna allungare il percorso per evitare le pattuglie delle guardie di frontiera algerine’’. L’ultima tratta la controllano i ‘Mbouzou’, le esperte guide tuareg. Contrabbandieri che scendono verso sud carichi di ogni tipo di merce, dalle sigarette ai biscotti algerini scaduti destinati ai paesi vicini, e ritornano carichi di esseri umani.
Dopo una giornata passata insieme, Willy ci confida il suo sogno: Venezia. “La città sull’acqua’’, dice. In realtà Willy non sa nemmeno dove si trova e come fare ad arrivarci. Sa soltanto che è in Italia, aldilà del mare. “Quel paese con una lingua così strana’’, ci spiega. “Dove ci sono il Milan AS’’, come lo chiamano tutti in Africa, “quelle cose di Mafia e la pasta’’. “Sono stanco, ma mi fermerà soltanto la morte, o Venezia. Questo è il mio cammino. È una vita’’. Willy non vuole cambiare rotta, come fanno in molti dopo alcuni tentativi falliti. “Il deserto mi spaventa, andare a Djanet e poi in Libia è troppo pericoloso. Continuerò verso il Nord, verso la costa, poi vedremo. Penso soltanto alla prossima tappa.’’ Non conosce nemmeno Annaba, la città sulla coste orientale dell’Algeria, da dove partono le imbarcazioni dirette in Italia. Pensava di andare a Maghnia per poi entrare in Marocco. Adesso forse, lo abbiamo un po’ confuso. “Ci penserò, grazie del consiglio.’’. Non senza prima guardarsi intorno, scende dall’auto. Ritorna sull’Oued, con Faraone e gli altri della sua tribù, in attesa di un lavoro. In attesa di quei pochi euro necessari almeno a lasciare Tamanrasset prima dell’arrivo del grande caldo.
Ma non proprio tutti vogliono andarsene da qui. C’e chi dopo anni di attesa ha deciso di restare e investire i suoi guadagni in un ristorantino ‘My Namay’ (carne, in Nigeriano). Se ne contano ormai più di dieci in città. Specialità My Namay: carne di agnello arrostita nei forni tradizionali. Se ne può ordinare una porzione dai 100 dinari (1euro) in su rigorosamente accompagnata da peperoncino. Tra chi, convinto dal florido mercato delle centinaia di militari presenti a Tam, non ci pensa proprio a partire, ci sono molte donne. Un intero quartiere, il ‘Chateaux’, è riservato alle prostitute africane. “Loro sì che guadagnano bene: 300 dinari a passaggio (3 euro)’’, ci dice Amadou, prima di salutarci. “Perché dovrebbero partire?’’.
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