28 October 2011

I fratelli Razqi e le tombe di Bu Selim

Ismail Razqi torna nella sua tomba di Bu Selim, foto di Alessio Genovese

Ismail lo catturarono il 9 marzo in un appartamento a Zawiya Dahmani, dove si era rifugiato insieme a Sami Sherif dopo il massacro del 20 febbraio, quando i miliziani di Gheddafi avevano sparato sui manifestanti di Tripoli confluiti in piazza verde per festeggiare la liberazione di Benghazi. Nella capitale ormai si era scatenata la caccia agli organizzatori delle manifestazioni. Jamal era già in carcere, Nureddin era stato arrestato il 26 febbraio, ma grazie a un amico colonnello era riuscito a evadere e si era dato alla clandestinità. Quanto a Ismail, i miliziani erano già stati a casa della madre a cercarlo. E l'omicidio di Najim Fashli, ucciso con un colpo al cuore da un cecchino appostato sui tetti di Fashlum durante la manifestazione del 21 febbraio, non era affatto un buon segno. Il cerchio si stringeva inesorabilmente. E alla fine presero anche lui.

Da ex poliziotto, Ismail aveva visto parecchie carceri in vita sua. Ma un posto così nemmeno se lo immaginava. La cella era larga 90 centimetri e lunga un metro e novanta. Grossomodo le dimensioni di una bara, se non fosse stato per l'altezza del soffitto, poco più di due metri, quanto bastava per alzarsi in piedi e cercare di farsi illuminare il viso dall'unico filo di luce che tagliava l'oscurità della cella dalla piccola feritoia sul soffitto. In gergo i detenuti la chiamavano qabr, ovvero la tomba.

Per non impazzire, Ismail disegnava. I muri della cella numero otto parlano per lui. Su una parete ci sono dei graffi. Settantadue, uno per ogni giorno che ci ha passato. All'inizio grattava l'intonaco con le unghie, poi con una linguetta di una lattina di alluminio. In alto sulla parete c'è scritto il suo nome, Ismail Razqi, il nome del quartiere, Fashlum, e la data della prima manifestazione, 17 febbraio 2011. Più in basso, poco sopra il pavimento, Ismail ha disegnato le quattro strade di Fashlum. Dove tutto è iniziato. E più in là il muso di una gattina. Qattusa. Un po' per avere qualcuno con cui parlare e un po' per spaventare i ratti che ogni notte entravano nella cella dal tubo, come chiamavano in gergo la feritoia sul soffitto.

A regolare la vita dell'isolamento c'era il bagno, una volta al giorno, il pasto, una volta al giorno, e la doccia, una volta al mese. Gli interrogatori invece avvenivano a distanza di un paio di settimane l'uno dall'altro. E potevano durare anche una giornata intera. Sei sette ore in piedi, ammanettati e bendati, con la faccia al muro. Poi le domande e le torture. Spogliati nudi, picchiati, violentati e torturati con l'elettricità. Ismail porta i segni degli elettrodi su tutto il corpo. Sono piccole cicatrici rettangolari, come dei cerotti. Quelli che fanno più male sono quelli che non si vedono. Sono quelli che gli hanno attaccato ai testicoli, perché Ismail non sa se potrà più avere dei figli. Così come non lo sanno Nureddin e Jamal e Sami e tutti gli altri oppositori passati sotto i ferri delle torture.

In tutto le tombe erano 78, disposte su sei corridoi. Parlare con gli altri detenuti in isolamento era vietato, ma di notte qualche parola riuscivano lo stesso a scambiarla, sottovoce. Fu così che Ismail scoprì chi erano i nuovi arrivati e che notizie portavano. Alla tomba numero 9 c'era Mabruk Zaghruba, un veterano della guerra del Chad, arrestato e torturato nonostante i suoi 73 anni e i suoi alti gradi nelle file dell'esercito libico, dopo che un suo discorso contro la dittatura aveva fatto il giro del mondo sulle tv internazionali. Alla 11 c'era Salah Hammad, uno dei primi organizzatori delle manifestazioni dei berberi sulle montagne Nafusa. Mentre la 4 era la tomba di Hmeida Ben Sliman, un comandante del dipartimento militare della sicurezza interna, passato anzitempo con la rivoluzione.

Nel corridoio a fianco invece c'erano le tombe dei due fratelli di Ismail: Jamal, che ci trascorse 71 giorni, e Nureddin, il dottore, che nel frattempo era stato di nuovo arrestato il 13 marzo. Nessuno di tre fratelli però era al corrente della presenza degli altri. Lo vennero a sapere soltanto più tardi, dopo essere stati trasferiti alla sezione politica del carcere di massima sicurezza di Bu Selim.

Accadde una notte di fine maggio. Quella sera Ismail era rimasto sveglio per la preghiera dell'alba, il farj. Quando iniziò a recitare la fatiha si accorse della voce. Uno della cella accanto stava recitando la stessa preghiera a voce alta. Allahu akbar. Il suono arrivava dal piccolo foro sul muro che divideva le celle. Ormai distratto, Ismail lasciò perdere le invocazioni e schiacciò l'orecchio contro il muro con ansia. Non ci poteva credere, era lui. Lo chiamò a pieni polmoni: Nureddin? Sei tu, Nureddin?! Il fratello non poté non riconoscere la sua voce roca da fumatore incallito, gli rispose di sì e ruppe in un pianto liberatorio. Di Jamal invece non avevano nessuna notizia. Girava voce che fosse anche lui a Bu Selim. Ma per averne conferma dovettero aspettare il giorno della liberazione.

(2/3 continua)
Parte di questo reportage è stato pubblicato su E-ilmensile