Jamal Razqi a Bu Selim, foto di Alessio Genovese
Quattro strade. Il semaforo, un parrucchiere e qualche albero a gettare un filo d'ombra su un marciapiede scassato. Sembrerebbe un incrocio qualunque della periferia di Tripoli. E invece è il simbolo della resistenza nella capitale libica. Perché è qui, nel quartiere di Fashlum, che la gente di Tripoli è scesa in strada per la prima volta contro il regime di Gheddafi. Era il 17 febbraio. La manifestazione era stata organizzata tre giorni prima, in una riunione segreta tenutasi nello stesso isolato, nella casa di un vecchio partigiano della resistenza libica contro il colonialismo italiano. Un certo Razqi, classe 1901. Lui è morto nel 1979, ma ai figli deve avere lasciato qualcosa di speciale in eredità. Perché quella sera tre di loro erano seduti intorno al tavolo che decise di sfidare la storia.
Tre quarantenni, tre storie agli antipodi, con un solo tratto comune: l'amore per la libertà. Jamal 48 anni, un ingegnere aerospaziale vissuto vent'anni tra Londra e Copenaghen. Ismail, 42 anni, un ex agente di polizia, senza lavoro da quando dieci anni fa firmò le proprie dimissioni perché contrario ai metodi del regime. E infine Nureddin, 41 anni, un noto chirurgo di una clinica privata di Tripoli. Quella sera, oltre ai fratelli Razqi, c'erano anche Sami Sherif e Nagim Fashi. Vennero divisi i compiti, decisi gli slogan e valutati i vari scenari.
Tre giorni dopo, il 17 febbraio, un'ottantina di persone scesero con loro a manifestare alle quattro strade. Ash-sha'ab yurid isqat en-nidham! Il popolo vuole la caduta del regime! Finì dopo un'ora con i lacrimogeni e gli spari in aria delle milizie di Gheddafi contro i manifestanti disarmati. La scintilla era scoppiata. Altri quartieri si preparavano a scendere in piazza. Ma di tutto questo i fratelli Razqi non videro niente, perché nel giro di pochi giorni finirono dritti in galera.
Il primo a essere arrestato fu Jamal. I servizi gli stavano addosso da quando era rientrato in Libia dalla Danimarca nel 2009. Perché era vero che aveva smesso di fare politica nel 1991, ma alle spalle aveva pur sempre dieci anni di attività ad alto livello nel fronte nazionale per la salvezza della Libia, il movimento d'opposizione che per tutti gli anni Ottanta aveva tentato in più occasioni di assassinare Gheddafi.
Lo presero un'ora prima dell'appuntamento del 20 febbraio. La sera prima a Fashlum erano scesi di nuovo in strada, ma questa volta erano migliaia di persone in contemporanea con altri quartieri di Tripoli. La repressione era stata molto violenta, la polizia aveva iniziato a sparare. E intanto da Benghazi arrivavano le notizie di centinaia di manifestanti massacrati sotto il fuoco delle milizie del regime. La decisione di armarsi per difendersi dalle forze armate di Gheddafi, era stata presa all'unanimità. Jamal era stato incaricato di gestire la faccenda, visto il suo addestramento militare. Aveva già una lista con i nomi delle persone a cui affidare i 30 kalashnikov rubati in una caserma di Tajura, un sobborgo di Tripoli.
L'appuntamento per ritirarli era alle diciassette. Ma non fece in tempo neanche a uscire dalla casa del cognato, dove si era nascosto la notte prima. Una squadra di trenta agenti sfondò la porta e lo schiacciò con la faccia a terra e la canna fredda di una pistola puntata sulle tempie. Lo portarono via ammanettato e bendato. Quando riaprì gli occhi era davanti ai pezzi grossi della sicurezza nazionale in un carcere segreto nel quartiere di Bu Selim. Lo stesso dove di lì a poco sarebbero finiti gli altri due fratelli.
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Parte di questo reportage è stato pubblicato su E-ilmensile