29 October 2011

I fratelli Razqi e il valore della libertà ritrovata

Nureddin Razqi, con un partigiano ferito all'ospedale Mitiga di Tripoli, foto di Alessio Genovese

Il 22 agosto, intorno alle dieci del mattino, la Nato aveva bombardato gli edifici amministrativi della prigione. Le sparatorie iniziarono subito dopo. All'inizio tutti i detenuti pensavano che fossero le armate dei rivoluzionari. Ma dopo un'intera giornata gli spari non erano ancora cessati. E allora tra i prigionieri si diffuse il panico. Qualcuno iniziò a dire che anziché una battaglia fosse una strage. E che le guardie del carcere stessero fucilando tutti i reclusi, come già era successo nel 1996 nello stesso carcere, quando vennero uccisi 1.200 detenuti politici nella sola notte del 29 giugno. Finché il giorno dopo sentirono cigolare il pesante portone di ferro della sezione.

Quando videro che si trattava di altri prigionieri e che venivano a liberarli, li accolsero con grida liberatorie e cori di vittoria al ritmo dei colpi di spranga che uno per uno facevano saltare i grossi lucchetti alle porte delle celle. I rivoluzionari avevano liberato il più grande carcere di Tripoli. Dimagriti e piegati da mesi di torture, i tre fratelli Razqi poterono finalmente riabbracciarsi nel piazzale del carcere. Ma fu soltanto per un momento. Perché nel quartiere intorno c'erano ancora cecchini e sparatorie. Bisognava allontanarsi da quel posto e farlo il prima possibile.

Fuori li aspettavano le auto dei cittadini del quartiere che, saputo della liberazione del carcere, erano venuti di propria volontà a dare un passaggio a chi doveva rientrare a casa. Fu poco prima di partire con i due fratelli che Jamal rivide Mohamed e Salim. I due ragazzini di Benghazi. Erano rimasti nello stesso settore soltanto cinque giorni, ma avevano conquistato l'affetto di tutti i 150 detenuti della sezione. Mohamed aveva 17 anni e sei proiettili nella schiena. Salim era due anni più grande, e come Mohamed era stato fatto prigioniero sul fronte, a Ben Jawad, a metà strada tra Benghazi e Sirte. In pochi giorni, i due si erano guadagnati la fama dei migliori rapper dell'area. Componevano e cantavano pezzi in rima sul valore della libertà e sulle gesta eroiche della resistenza nelle varie città del paese martoriate dalle milizie di Gheddafi. E poi avevano avuto l'idea di animare dei dibattiti, come se fossero stati dei talk show televisivi. In cui ognuno dalla propria cella interveniva sul tema del giorno, che poteva essere la democrazia, l'istruzione, i rapporti della Libia con l'estero.

Il giorno della liberazione, quando Jamal rivide Mohamed e Salim, si accorse subito che erano armati. Avevano preso due kalashnikov dai ribelli. Ripartivano immediatamente per il fronte, neanche il tempo di passare da casa. Quando Jamal fece per prendere un'arma anche lui, lo tirarono da una parte e lo fermarono. “Zio Jamal – gli dissero – tu sei grande e hai dei bambini. Torna dai tuoi piccoli, al fronte ci andiamo noi che siamo ragazzi. Se saremo ancora vivi torneremo a trovarti a Fashlum”.

Mentre rievoca quei momenti, Jamal non riesce a trattenere le lacrime. Sarà che i due ragazzini non sono mai ritornati a trovarlo a Fashlum. O sarà che i sogni a volte si avverano. E che la passione di Mohamed e Salim è la stessa che aveva lui da ragazzo, prima che smettesse di credere ai sogni. Ed è la passione di tutta una generazione di ragazzi che a costo della propria vita ha rovesciato il regime.

Sono quei ragazzi che danno a Jamal la conferma di averci visto bene quando rifiutò di collaborare con il capo del dipartimento della sicurezza, Abdallah Mansur. Era l'inizio di marzo. Il regime gli proponeva la libertà in cambio di un'opera di mediazione con le famiglie dei leader delle proteste. Gheddafi era disposto a sborsare fino a 100.000 euro a famiglia purché la piantassero. Jamal rispose che non erano i soldi che avrebbero fermato la rivoluzione, e che al contrario la gente avrebbe pagato la libertà al prezzo del proprio sangue. Fu quel giorno che lo portarono nei sotterranei e che con una pinza gli strapparono via le unghie dei piedi.

Ma ormai è soltanto un ricordo. Le unghie sono già ricresciute a metà e il morale è alto. Perché il regime è caduto. Certo, nessuno dei fratelli Razqi si è ancora ripreso dalle torture. Ancora camminano piegati e indolenziti. Eppure di quello che è successo a Bu Selim ne parlano come di un'esperienza mistica. Che dà loro la forza per continuare il loro impegno.

Ismail ha ripreso l'incarico in polizia e lavora nella prigione di Jedayda, dove sono detenuti circa cinquecento miliziani del regime e presunti mercenari, per i quali si batte per un processo equo e contro ogni forma di tortura. Nureddin invece è tornato in sala operatoria, per ora come volontario, all'ospedale militare della base di Mitiga, dove sono ricoverati decine di feriti da arma da fuoco, per i quali si spende con professionalità indifferentemente dalla loro appartenenza alle milizie di Gheddafi o all'armata della rivoluzione. Jamal invece è stato nominato responsabile della sicurezza del quartiere di Fashlum. La sede del suo nuovo ufficio è a pochi passi da quelle quattro strade dove tutto è iniziato.

(3/3) Parte di questo reportage è stato pubblicato su
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