15 September 2011

Rivoluzionari e razzisti? Le cure in attesa del giudizio

Un video sul telefonino di un miliziano documenta il massacro di Qalaa: 34 civili uccisi dalle milizie di Gheddafi a Yefren

Durante la guerra, nelle caserme dei miliziani di Gheddafi, gli ufficiali ripetevano in continuazione che il paese era sotto attacco e che Al Qaeda aveva assoldato dei mercenari algerini e egiziani per occupare la Libia. E le uniche tv che i soldati potevano vedere, confermavano la stessa zolfa. Niente Al Jazeera, niente Al Arabiya. Soltanto la tv di Stato. Soltanto la propaganda del regime costruita ad arte. Con tanto di punte tragicomiche. Come l'intervista del barista tunisino che ammetteva di avere messo delle pasticche di droga nel caffè per intossicare i ragazzi di Tripoli. Oppure il barbuto pakistano che dopo essere stato arrestato dalle forze di sicurezza del regime confessava l'esistenza di un piano di Al Qaida per l'occupazione della Libia. E infine le prediche degli imam che promettevano il paradiso per i martiri che sarebbero morti sotto la bandiera verde di Gheddafi. Così è stato facile convincere per mesi i soldati che stavano combattendo per una giusta causa. E quello che non ha fatto la propaganda, l'ha fatto il denaro.

C'era un tariffario per tutto, anche per il martirio: alle famiglie dei morti in battaglia erano stati promessi 70mila dinari (35mila euro). Che si andavano a aggiungere ai 10mila dinari (5mila euro) al mese previsti per chi stava sulla prima linea di fuoco e giù giù dai 5mila ai mille dinari al mese a seconda degli incarichi ricoperti e a seconda che fossero militari professionisti o volontari.

Gente come Mustafa Said, un libico nero di 27 anni, arruolatosi come volontario nel battaglione della sua città, Sebha. Lo stesso posto dove, prima di unirsi alle milizie, aveva assistito all'arrivo di intere divisioni di mercenari. Gente venuta dal Niger, dal Chad e dal Mali. Quasi tutti tuareg. Molti non erano mai stati prima in Libia, alcuni nemmeno sapevano l'arabo. Eppure avevano un buon addestramento militare, e infatti era alle loro divisioni che il regime affidava l'artiglieria pesante, i lanciamissili, i carri armati e l'antiaerea, mentre ai volontari come Mustafa avevano dato soltanto il kalashnikov senza nessun tipo di addestramento.

Mustafa partì da Sebha un giorno di inizio agosto senza farsi troppe domande. Il convoglio andava a Tripoli. Alla fine l'importante erano i soldi. Dopotutto era quello il motivo di fondo per cui andava alla guerra: quei mille dinari al mese che il regime gli aveva promesso.

Ed era quello lo stesso motivo di buona parte dei ragazzi libici partiti volontari con le milizie del regime. E il fatto che molti di loro fossero libici neri, non è un caso. Perché banalmente la regione di Sebha, e più in generale di tutto il sud nero del paese, è quella dove più alto è il tasso di disoccupazione. E come accade in ogni paese del mondo, Italia compresa, la maggior parte dei soldati finiscono sempre per provenire dai ceti più poveri della società. La Libia non fa eccezione.

Ad ogni modo, di quei soldi Mustafa alla fine non ha visto neanche l'ombra, perché prima che finisse il primo mese di ingaggio, il regime è caduto e lui è stato fatto prigioniero. Quella era il suo primo combattimento. Ero lo scorso 21 agosto. Quando il bunker di Gheddafi a Tripoli, a Bab el Azizya, venne circondato dall'armata popolare degli insorti, lui fu subito colpito da un proiettile alla gamba. Lo trovarono a terra insanguinato, e lo portarono così com'era all'ospedale Mitiga, dove ha subito un'operazione e dove è tuttora ricoverato insieme a decine di prigionieri di guerra, che qui ricevono lo stesso trattamento di tutti gli altri pazienti, senza nessuna discriminazione.

Tra loro c'è anche una ragazza. Viene dal quartiere bronx di Tripoli: Bu Selim. È una giovane eroinomane. Dicono che fosse stata addestrata insieme a un'amica a sparare con un fucile di precisione. Un addestramento durato mesi, prima che venisse poi impiegata come cecchina durante la battaglia finale per Tripoli, previo omicidio dell'amica per farle capire che non era il caso di fare scherzi. L'hanno catturata nel palazzo da dove sparava. Era ferita, hanno portato anche lei all'ospedale Mitiga. Un gesto di umanità che è un buon segno per la Libia che verrà.

Un'umanità che il regime non ha mai mostrato, torturando e uccidendo centinaia di prigionieri catturati sul fronte avversario. Un'umanità che ho avuto modo di vedere anche in altri due ospedali che ho potuto visitare. L'ospedale centrale di Tripoli e l'ospedale di Yefren sulle montagne berbere del Jebal Nafusa. Anche lì il giuramento di Ippocrate prevale sulle ragioni della guerra. E a tutti i pazienti è riservato lo stesso trattamento.

Cosicché le corsie degli ospedali diventano di fatto l'unico vero spazio di dialogo nella Libia insanguinata da questa guerra di liberazione. L'unico vero spazio dove il nemico ritorna a essere umano. I miliziani scoprono che quelli che hanno combattuto sono ragazzi che vogliono liberare il paese dalla tirannia. E i giovani partigiani libici scoprono che dentro i blindati del nemico ci sono ragazzi come loro, accecati dalla propaganda, disposti a non farsi troppe domande pur di guadagnare un po' di soldi facili, e infine troppo spaventati per disertare o rifiutare gli ordini. Anche perché era prassi che chi rifiutasse di sparare in battaglia fosse ucciso sommariamente dai suoi stessi commilitoni.

E tuttavia non ci sarà pietà. Sono gli stessi medici a dirlo. Anche uno spirito mite e gentile come quello del dottor Nureddin Razqi, un noto chirurgo di Tripoli che fu tra i promotori delle prime manifestazioni di febbraio a Tripoli. Lui che per quelle manifestazioni venne arrestato e torturato per sei mesi, e che pure dal carcere è uscito rinforzato nello spirito e nella convinzione della legittimità della sua lotta per il bene del paese, non ha dubbi sulle scelte da prendere con i miliziani del regime.

“La rivoluzione è un'occasione unica nella storia di un popolo. Accade una volta ogni due o tre secoli. Non ci sono scuse per farsi trovare impreparati. Ognuno di noi ha messo a repentaglio la propria vita. A migliaia sono morti. Compresi molti soldati e miliziani, uccisi dopo che avevano rifiutato di sparare sulla propria gente. Adesso è finita, abbiamo vinto. Curiamo tutti allo stesso modo perché fa parte dei nostri valori, dopotutto sono pur sempre i nostri fratelli. Poi però finiranno davanti a un tribunale. Chi ha ucciso sarà ucciso. Gli altri saranno rilasciati”. (continua)