16 September 2011

Rivoluzionari e razzisti? Chi si salva e chi no

Quattro mercenari nigerini e maliani, catturati a Zliten, spiegano dove sono stati addestrati e come sono arrivati al fronte

Tripoli è ancora sotto shock per il sangue versato durante i combattimenti per la sua liberazione. In città si continuano a cercare i mercenari di Gheddafi. E la pelle nera continua a essere vista come un primo indizio di colpevolezza. Eppure in città non c'è stato il massacro annunciato. Niente regolamenti di conti, niente esecuzioni sommarie degli stranieri. Al contrario per strada già si incontrano molti neri, libici e stranieri, che girano come se niente fosse, continuano a lavorare, o addirittura indossano la divisa dei ribelli. Altri si riuniscono per pregare nelle proprie chiese, ma non è tutto rose e fiori. L'impressione è che a fare da discriminante siano i legami sociali. In altre parole gli stranieri che vivono a Tripoli da anni, che parlano l'arabo e che qui hanno intessuto una rete di rapporti significativi, si sentono al riparo. A rischiare l'arresto e le aggressioni sono gli ultimi arrivati, quelli che vivono in Libia da pochi mesi, che non sanno la lingua e che non conoscono nessuno che possa scagionarli nel caso di accuse infondate. In città intanto ci sono state alcune aggressioni - fortunatamente soltanto casi isolati - mentre diverse centinaia di africani hanno trovato rifugio in un porto di Janzur, lo stesso da dove fino a due mesi fa partivano i pescherecci per Lampedusa. Resteranno lì finché la capitale non tornerà alla normalità. Dopotutto stanno facendo lo stesso molti africani  che da giorni rimangono chiusi nelle proprie case su consiglio degli stessi ribelli, in attesa che torni la calma. Ormai sembra questione di pochi giorni, al massimo di qualche settimana. In città sono già rientrate quasi tutte le famiglie dei libici che erano fuggiti durante la guerra in Tunisia e in Egitto. Un buon segno per la pace. Presto ripartirà anche l'economia, e tutti i libici sanno che senza la manodopera straniera a Tripoli non si muove una foglia.

Rabi'a ha la pelle nera come la notte di Yefren. L'ennesima senza corrente elettrica. La poca luce che c'è viene dalla luna e dalla brace del narghilé che si sta fumando con i compagni, avvolto in una nuvola di fumo bianco. Il kalashnikov è appoggiato al muro, sempre a portata di mano, il coltellaccio invece lo tiene legato alla cinta. Rabi'a è un volontario dell'armata rivoluzionaria di Yefren. Figlio di una famiglia nera di questa che è una delle principali città berbere delle montagne del Jebel Nafusa. Rabi'a ha combattuto con i partigiani berberi per difendere la città durante l'assedio delle milizie di Gheddafi. La famosa armata dei 112, quanti erano i ragazzi rimasti a combattere sulle montagne per liberare la cittadina dopo la fuga di tutti gli abitanti. Con la stessa armata, Rabi'a ha combattuto per la liberazione di Zawiya e di Tripoli. Si sente semplicemente uno di loro. E quasi non capisce le nostre domande. Questo è il suo paese, nessuno gli ha mai fatto pesare i tratti afro e la pelle nera. Perché prima di tutto è un libico e a suo dire la storica minoranza nera tra la popolazione libica è bene accetta. Non soltanto sulle montagne, ma anche in città a Tripoli.

In effetti anche nella capitale si vede qualche nero tra la folla in piazza dei martiri - la vecchia piazza verde - dove ogni sera si riversano centinaia di migliaia di persone per festeggiare la caduta del regime. Pochi, ma ci sono, alcuni sono pure armati. Sono arrivati da Misrata, Zintan e Benghazi il giorno della battaglia per liberare la capitale. Sparano in aria per festeggiare. La gente li fotografa e gli punta le due due dita aperte a v in segno di vittoria. Nessuno sembra accorgersi della pelle nera. Ma non c'è bisogno di indossare la divisa della rivoluzione per essere rispettati.

Per rendersene conto basta fare un giro in uno dei più bei caffè del centro storico della vecchia medina della capitale, a fianco del bagno turco ottomano, dietro a quello che resta dell'arco romano dell'imperatore Marco Aurelio. Qui un terzo dei clienti sono libici neri. Gente di Sebha, la pancia piena e i vestiti eleganti, attaccati al narghilé tutto il pomeriggio davanti alla televisione che proietta le immagini del debutto calcistico al Cairo della nuova nazionale libica contro il Mozambico, valida per le qualificazioni alla coppa d'Africa.

Nello stesso bar, notiamo altri due neri. Sono i due camerieri, che però a differenza dei clienti non sono libici. Compaoré è del Burkina Faso e Daoud del Senegal. In Libia ci vivono da più di cinque anni e in questo locale ci lavorano da un anno intero. Oltre a essere diventati specialisti del tabacco, ormai parlano bene il dialetto libico e nel quartiere conoscono un po' tutti. Motivo per cui si sentono al sicuro: se anche dovessero avere un problema con la polizia, basterebbe una telefonata al proprio datore di lavoro per scagionarli da qualsiasi accusa.

Brahim fa lo stesso ragionamento. Lui è chadiano. In Libia ce lo portò il padre 20 anni fa, quando era ancora un bambino di 9 anni. Da allora non si è mai mosso dalla vecchia medina di Tripoli, dove è titolare di uno spaccio alimentare. Nei mesi scorsi non ha mai chiuso la bottega. E mentre parliamo, i suoi clienti libici ci confermano la buona reputazione di cui gode in tutto il quartiere. Lui non è come gli altri, dicono. Gli altri sono sono i 150 che hanno arrestato nei giorni scorsi con l'accusa di essere mercenari di Gheddafi  nascosti nella medina dopo essere fuggiti dal fronte. Decisamente troppi per un quartiere così piccolo e lontano dalla linea del fronte. Qualcuno dei ragazzi armati della medina deve avere esagerato. E sicuramente ha esagerato chi è andato a prendere Mohammad Sami.

Mohammad Sami è un commerciante nigerino di 44 anni. Vive a Niamey. In Libia ci viene per lavoro. Fa import export. Tre mesi in Libia e tre mesi in Niger. Due volte l'anno. Su e giù per il deserto, da una vita. L'ho conosciuto all'ospedale centrale di Tripoli. Sdraiato su un letto e fresco di punti sul tagliaccio che gli ha rifilato il suo aggressore con un coltellata nella coscia. Lui non si spiega il motivo di tale aggressione. Il suo socio invece non ha dubbi. Si chiama Imed ed è lui che l'ha portato di corsa al pronto soccorso. L'hanno aggredito perché pensavano che fosse uno dei mercenari nigerini al soldo di Gheddafi che nei giorni passati hanno seminato il terrore in città.

È anche per questo che molti stranieri in città si stanno ancora tenendo nascosti nelle proprie case. A portargli il cibo ci pensano i comitati locali della rivoluzione. Ci sono gruppi in tutte le strade. Si sono organizzati con le moschee. Distribuiscono acqua e cibo. Sia gli aiuti umanitari sbarcati nei giorni scorsi a Tripoli, sia le donazioni di privati cittadini libici. I volontari che portano agli africani le provviste a casa, sono gli stessi che gli consigliano di non uscire di casa. Se sono puliti, meglio starsene a casa ancora per qualche giorno, il tempo che siano concluse le ricerche dei mercenari in fuga. Poi tutto tornerà alla normalità, promettono. E allora li verranno a cercare di nuovo, ma stavolta per lavorare.

Quello è il momento che aspettano tutti gli stranieri che hanno deciso di restare a Tripoli, sebbene negli ultimi sei mesi le milizie di Gheddafi offrissero in modo gratuito la traversata per Lampedusa. I porti utilizzati per le partenze erano tre: il porto commerciale di Tripoli, il porto di Zuwara e il porticciolo di Sidi Bilel, a Janzur, dove ancora oggi sono bloccati circa settecento africani.

Sono soprattutto nigeriani, ma anche maliani, ghanesi, togolesi, sudanesi e chadiani. Si sono rifugiati a Sidi Bilel un mese fa, quando ormai le partenze per Lampedusa erano bloccate. Ma non era l'Europa che interessava loro. Erano venuti qui soltanto per stare uniti e perché si sentivano protetti dalle milizie di Gheddafi. Lontano da una città in aria di battaglia finale e lontano dal rischio di essere scambiati per mercenari durante i combattimenti.

Nel frattempo è passato un mese, e questi vecchi pescherecci allo sfascio sono diventate le loro case. Dormono a bordo, oppure sotto gli scafi dei pescherecci in mezzo al piazzale, coperti dall'ombra dei teli che hanno tirato tra una barca e l'altra. Le condizioni sono più che precarie, soprattutto dal punto di vista della sicurezza. Nei giorni scorsi infatti sono stati alla mercé dei balordi di turno, pericolosi ragazzini armati che da quando Tripoli è libera ogni tanto si presentano a fare il bello e il cattivo tempo, senza dover rispondere a nessuno delle loro bravate. Qualche sparo in aria e qualche perquisizione fittizia come pretesto per palpare le ragazze, qualche decina, presenti al porto.

Niente in confronto al gravissimo episodio accaduto domenica 21 agosto, il giorno dopo l'ingresso a Tripoli dei ribelli. Quella sera, poco dopo il tramonto, sei macchine armate dei ribelli fecero irruzione sul molo del porto sparando colpi di mitragliatrice in aria per spaventare gli africani e costringere tutti a concentrarsi in unico spazio del piazzale. Lì un'iniziale perquisizione si trasformò in una rapina collettiva. Chi aveva soldi e telefoni cellulari con sé, ne fu derubato. Dopodiché arrivò il turno delle donne. Quattro delle sei automobili erano già ripartite. Ma i ragazzi delle due pattuglie rimaste sul posto, portarono le ragazze in disparte, dietro le barche buttate a terra sul piazzale. E lì, secondo quanto raccontato dalle stesse ragazze, le costrinsero ad avere dei rapporti sessuali.

Da allora la situazione è migliorata, anche perché nel frattempo la notizia è uscita sulla stampa internazionale, e il consiglio transitorio ha incaricato la mezza luna crescente libica di seguire il campo. Così nel giro di pochi giorni, insieme a un team di Medici Senza Frontiere, è arrivata prima l'acqua potabile, poi il cibo e l'assistenza sanitaria, e più in generale un minimo di presenza di operatori e giornalisti che ha finora limitato il ripetersi di episodi come quello del 21 agosto.

Ad ogni modo nel porto sta salendo la frustrazione e sempre più persone sono impazienti di ritornare nelle proprie case adesso che la situazione a Tripoli si sta normalizzando. Kingsley e Jude non hanno dubbi. Sono in Libia da quattro anni, hanno i contatti giusti per trovare lavoro non appena tutto ricomincerà. In città molte case sono state devastate dai combattimenti, senza contare gli edifici governativi e le caserme distrutte dai bombardamenti della Nato.

Stanno aspettando lo stesso anche i nigeriani rimasti in città. Gente come Evans, Newman e sua moglie Patience. Li ho incontrati prima di venire al porto di Sidi Bilel, mentre passeggiavano eleganti in centro città, appena usciti da una celebrazione religiosa presso una delle chiese evangeliche nigeriane di Tripoli. Andavano a pranzare da un amico, per poi recarsi tutti insieme a Gurgi, dove stanotte c'è una veglia di preghiera a casa di un membro della loro congregazione. Rimarranno svegli fino all'alba per pregare. Segno che a Tripoli le cose stanno tornando alla normalità.