Con Selamawi per le strade di Tripoli nel 2008 |
Ci eravamo conosciuti alla chiesa di Tripoli ormai tre anni fa, durante il mio primo viaggio in Libia con Roman Herzog nel novembre del 2008. E da subito avevamo capito che non era un tipo come gli altri. Aveva accettato di invitarci a pranzo a casa sua, assumendosi il rischio di essere intercettato dagli uomini dei servizi segreti libici che ci pedinavano. E prima di salutarci, ci aveva consegnato l'appello che aveva scritto quattro mesi prima con altri cinque studenti universitari di Asmara, con cui aveva trascorso un lungo periodo di detenzione nel carcere di Misrata, in Libia, dopo che li avevano arrestati sulla rotta per Lampedusa. Da allora Selamawi non aveva mai smesso di collaborare con Fortress Europe. Era uno degli informatori più attivi della comunità eritrea in Libia. E grazie alla sua militanza abbiamo potuto diffondere importanti notizie, soprattutto all'epoca dei respingimenti e delle rivolte nelle carceri libiche. E questo nonostante le minacce che i funzionari dell'ambasciata eritrea gli avevano fatto arrivare neanche tanto velatamente, facendogli capire che sapevano che dietro alla pseudonimo di Selamawi c'era il suo nome e che doveva piantarla di interessarsi tanto di politica. Ma lui imperterrito ha sempre continuato. Traducendo gli articoli di Fortress Europe in tigrino, per gli eritrei della diaspora. E aggiornando il suo blog dagli internet point di Tripoli. Finché un bel giorno è sparito nel niente.
L'ultima volta che ci eravamo sentiti al telefono era stato il 24 febbraio. Benghazi era caduta in mano agli insorti dopo una settimana di sangue, e a Tripoli le manifestazioni erano state represse con gli spari sulla folla e i miliziani casa per casa a stanare gli oppositori. In quel clima di terrore, mentre centinaia di migliaia di lavoratori stranieri lasciavano la Libia, Selamawi mi annunciava che raggiungere la Tunisia era troppo pericoloso, perché per i neri uscire da Tripoli significava essere scambiati per mercenari di Gheddafi e uccisi. E quindi, concludeva, avrebbe aspettato di vedere se si fosse riaperta la rotta per Lampedusa per tentare la sorte. Poi il silenzio. Per tre mesi e mezzo non ho più avuto sue notizie.
Ar-raqm al matlub muqfil. Avevo imparato a memoria il messaggino automatico della Libyana. Il numero della persona da lei chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile. Intanto in mare si contavano i morti a centinaia, settimana dopo settimana. E devo ammettere che stavo iniziando a farmene una ragione. Che non c'erano altre spiegazioni. E che Selamawi era morto. Annegato insieme a centinaia di altri ragazzi partiti dai porti di Tripoli in cerca di lidi sicuri sulla sponda nord. Ne ero ormai sicuro, perché ero altrettanto sicuro che se fosse stato ancora vivo da qualche parte mi avrebbe contattato in un modo o nell'altro. Fin quando stamattina ne ho avuto la conferma.
Posta in arrivo. Messaggio delle 08:27. Oggetto: "From Timosoara". Sapevo che mi avrebbe contattato se fosse stato ancora vivo. Non chiedetemi come, ma Selamawi è arrivato in Romania e sta bene. E spero che presto potremo tutti tornare a chiamarlo con il suo vero nome. Magari nei corridoi di un'università inglese, dove Selamawi sogna di continuare i suoi studi in biologia marina.