Ormai in Italia non è soltanto emergenza sbarchi, ma anche emergenza informazione. Oltre a espellere i tunisini detenuti nei centri di identificazione e espulsione di mezza Italia, il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha infatti deciso di espellere anche i giornalisti. Con una circolare ministeriale emanata il primo aprile, che ha fatto poco rumore ma che di fatto vieta l'ingresso nei centri di identificazione e espulsione a qualsiasi organo di stampa. Un salto indietro di dieci anni. Quando nei centri di espulsione, che allora si chiamavano cpt, nessun giornalista poteva entrare, se non al seguito di qualche delegazione parlamentare.
Erano gli anni in cui Fabrizio Gatti, per il Corriere della Sera, si finse un mendicate rumeno, nel 2000, per vedere il centro espulsioni di Milano. Uno scherzetto che gli costò nel 2004 una condanna in primo grado a 20 giorni con la condizionale, per falsa dichiarazione di identità, e un'assoluzione in secondo grado. Gli andò meglio cinque anni dopo, quando ripeté lo stesso stratagemma per avere accesso al centro di prima accoglienza di Lampedusa, fingendosi un naufrago curdo, nel luglio del 2005. Il tribunale di Agrigento lo assolse nel dicembre 2010, e con formula piena, in nome del diritto di cronaca.
Ma in fondo i tempi della censura sembravano definitivamente tramontati ormai. In nome della trasparenza, nel 2006 il governo Prodi aveva istituito presso il ministero dell'Interno una commissione d'inchiesta sulle condizioni dei centri di espulsione, guidata da Staffan De Mistura, le cui conclusioni portarono nel 2007 alla chiusura dei centri di Ragusa, Brindisi e Crotone. Parallelamente il Viminale aprì le porte dei Cie all'ingresso dei giornalisti, con una circolare ministeriale.
È grazie a quella circolare che ho avuto la possibilità di visitare tra il 2008 e il 2011 i centri di espulsione di Trapani, Caltanissetta, Torino, Modena, Gradisca, Roma e Crotone. Da quelle visite ne sono nati pezzi finiti sulle prime pagine dei quotidiani e interrogazioni parlamentari. Ricordo soprattutto l'inchiesta sui pestaggi nel Cie di Gradisca e Torino, che mi procurò addirittura una visita di cortesia di due agenti della Digos a casa, come racconto ne "Il mare di mezzo".
Quest'anno avevo in progetto di rifare lo stesso giro. Avevo già visitato il cie di Modena, da dove era uscita la storia di Kabbour, e quello di Torino, dove avevo incontrato i ragazzi tunisini di Djerba e del gruppo Guantanamo Italia su facebook. Ma questa mattina mi è stato ripetuto per la seconda volta al telefono che sarà impossibile. Il capo di gabinetto della Prefettura di Trapani è stato categorico. Ordini ministeriali. Le stesse parole che aveva usato la Prefettura di Brindisi. La circolare ministeriale del primo aprile. Vietato l'ingresso ai giornalisti e a tutte le associazioni umanitarie eccetto quelle che hanno già firmato protocolli con le Prefetture e le organizzazioni governative come Nazioni Unite e Oim.
Per ora rimangono i telefonini cellulari. Sono l'unico filo di collegamento tra il dentro e il fuori. Ma è sempre più difficile. Perché a Milano, Modena e Gradisca i trattenuti non possono più tenere con sé il cellulare. E la lista dei centri che vietano l'uso del telefonino potrebbe allungarsi. Tanto ormai l'emergenza sembra giustificare qualsiasi cosa. Ma un modo per rompere il muro del silenzio lo si troverà comunque. E qui rinnovo l'invito ai parenti e agli amici dei trattenuti nei Cie. E anche ai funzionari di polizia e agli operatori sociali che lavorano dentro i Cie. Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti: gabriele_delgrande@yahoo.it
Aggiornamento: da questo appello è nata la campagna nazionale lasciateCIEntrare indetta per il 25 luglio 2011
Erano gli anni in cui Fabrizio Gatti, per il Corriere della Sera, si finse un mendicate rumeno, nel 2000, per vedere il centro espulsioni di Milano. Uno scherzetto che gli costò nel 2004 una condanna in primo grado a 20 giorni con la condizionale, per falsa dichiarazione di identità, e un'assoluzione in secondo grado. Gli andò meglio cinque anni dopo, quando ripeté lo stesso stratagemma per avere accesso al centro di prima accoglienza di Lampedusa, fingendosi un naufrago curdo, nel luglio del 2005. Il tribunale di Agrigento lo assolse nel dicembre 2010, e con formula piena, in nome del diritto di cronaca.
Ma in fondo i tempi della censura sembravano definitivamente tramontati ormai. In nome della trasparenza, nel 2006 il governo Prodi aveva istituito presso il ministero dell'Interno una commissione d'inchiesta sulle condizioni dei centri di espulsione, guidata da Staffan De Mistura, le cui conclusioni portarono nel 2007 alla chiusura dei centri di Ragusa, Brindisi e Crotone. Parallelamente il Viminale aprì le porte dei Cie all'ingresso dei giornalisti, con una circolare ministeriale.
È grazie a quella circolare che ho avuto la possibilità di visitare tra il 2008 e il 2011 i centri di espulsione di Trapani, Caltanissetta, Torino, Modena, Gradisca, Roma e Crotone. Da quelle visite ne sono nati pezzi finiti sulle prime pagine dei quotidiani e interrogazioni parlamentari. Ricordo soprattutto l'inchiesta sui pestaggi nel Cie di Gradisca e Torino, che mi procurò addirittura una visita di cortesia di due agenti della Digos a casa, come racconto ne "Il mare di mezzo".
Quest'anno avevo in progetto di rifare lo stesso giro. Avevo già visitato il cie di Modena, da dove era uscita la storia di Kabbour, e quello di Torino, dove avevo incontrato i ragazzi tunisini di Djerba e del gruppo Guantanamo Italia su facebook. Ma questa mattina mi è stato ripetuto per la seconda volta al telefono che sarà impossibile. Il capo di gabinetto della Prefettura di Trapani è stato categorico. Ordini ministeriali. Le stesse parole che aveva usato la Prefettura di Brindisi. La circolare ministeriale del primo aprile. Vietato l'ingresso ai giornalisti e a tutte le associazioni umanitarie eccetto quelle che hanno già firmato protocolli con le Prefetture e le organizzazioni governative come Nazioni Unite e Oim.
Per ora rimangono i telefonini cellulari. Sono l'unico filo di collegamento tra il dentro e il fuori. Ma è sempre più difficile. Perché a Milano, Modena e Gradisca i trattenuti non possono più tenere con sé il cellulare. E la lista dei centri che vietano l'uso del telefonino potrebbe allungarsi. Tanto ormai l'emergenza sembra giustificare qualsiasi cosa. Ma un modo per rompere il muro del silenzio lo si troverà comunque. E qui rinnovo l'invito ai parenti e agli amici dei trattenuti nei Cie. E anche ai funzionari di polizia e agli operatori sociali che lavorano dentro i Cie. Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti: gabriele_delgrande@yahoo.it
Aggiornamento: da questo appello è nata la campagna nazionale lasciateCIEntrare indetta per il 25 luglio 2011