Sono arrivati a Lampedusa senza valigie, ma si sono portati appresso un po' del vento rivoluzionario che da dicembre scuote la Tunisia. Gli ingredienti sono gli stessi: mobilitazioni pacifiche e comunicazione sui social network e sulla stampa internazionale. Loro sono trenta dei seimila tunisini arrivati a Lampedusa dall'inizio dell'anno. Lavoratori diretti in Francia dove i familiari li stanno aspettando pronti a farsene carico. Da ormai tre settimane sono reclusi nel centro di identificazione e espulsione di Torino, e adesso che hanno capito che dovranno restare in gabbia per altri sei mesi e con il rischio di essere espulsi, hanno organizzato la protesta. Dentro il centro hanno proclamato lo sciopero della fame. Hanno iniziato a rifiutare il cibo martedì e oggi è il quinto giorno che non mangiano. Giovedì sono svenuti tre ragazzi e altri due si sono sentiti male. Sono tutti molto stanchi, ma si dicono pronti a portare avanti la protesta fino al giorno della loro liberazione. E intanto si sono organizzati su internet.
La pagina si chiama “Guantanamo Italia” e si trova su facebook. Funziona così: i trenta tunisini della sezione verde del cie di Torino hanno raccolto i loro nomi e li hanno comunicati telefonicamente agli amici di Zarzis, in Tunisia, che hanno provveduto a creare la pagina. Sulla bacheca si può scaricare un video, dove scorrono i nomi completi dei ragazzi trattenuti in corso Brunelleschi, con una canzone di sottofondo e una denuncia molto chiara. “Quello che sta succedendo ai nostri fratelli in Italia è molto spiacevole. Non usurpate la libertà dei nostri giovani”. Dopodiché viene fornito l'indirizzo del cie di Torino in via Santa Maria Mazzarello.
Sulla stessa pagina si possono scaricare, nell'album fotografico, le immagini della manifestazione di Zarzis organizzata dai familiari delle vittime del naufragio dell'11 febbraio, quando una collisione in mare tra un peschereccio con 120 ragazzi a bordo e la corvetta “Liberté 302” della marina militare tunisina provocò 35 morti. Gli stessi gestori della pagina facebook hanno chiesto anche alle televisioni Aljazeera e France24 di occuparsi della vicenda. Chiedono giustizia per i familiari di quelle vittime. E chiedono giustizia per i ragazzi tunisini rinchiusi nei centri d'espulsione di mezza Italia. 100 a Torino, 90 a Roma, 50 a Gradisca e altrettanti a Bari, Bologna, Modena, Lamezia e Trapani. Circa cinquecento persone costrette a passare i prossimi sei mesi in detenzione pur non avendo commesso reati e pur essendo la loro meta la Francia.
“Ridateci la nostra libertà. Siamo diretti in Francia, lasceremo l’Italia, dateci soltanto cinque ore!” mi dicevano giovedì durante la mia visita al cie. Ci ho parlato da dietro la gabbia della recinzione. Non ero autorizzato a entrare nelle sezioni. E mi sentivo dalla parte sbagliata. Perché fa male guardare gli occhi di un uomo attraverso le maglie di una grata di ferro. Soprattutto quando gli uomini dall'altra parte gridano in coro “Libertà!”, la prima parola che hanno imparato in italiano, sventolando fogli bianchi di carta con su scritto la stessa cosa: “Libertà”. Sono gli stessi ragazzi che per la libertà hanno sfidato i proiettili dei cecchini di Ben Ali e che hanno fatto cadere il regime in Tunisia. Gli stessi ragazzi che abbiamo osannato nei nostri pomposi editoriali, quando facebook e rivoluzione erano un abbinamento decisamente sexy per i guru della comunicazione.
E adesso che quegli stessi ragazzi sono rinchiusi nelle nostre gabbie? Dove sono finiti i giornalisti? Dove sono finite le associazioni? Dove sono finiti i politici? Possibile che nessuno si prenda la briga di fargli una visita? Di ascoltare le loro istanze? Di capire perché l'Italia accetta le domande d'asilo di 2.000 tunisini e ne lascia partire 1.400 senza documenti verso la Francia facendo finta di niente, ma si mostra inflessibile sulla detenzione di poche centinaia degli stessi? È questo atteggiamento così contraddittorio che ha fatto già esplodere proteste in tutti i cie d'Italia. E soprattutto a Gradisca, dove il cie è stato devastato dopo due giorni di incendi e rivolte, al punto che oggi i 100 reclusi sono costretti a dormire per terra e all'addiaccio negli unici due locali rimasti a disposizione.