CAIRO – Piazza Tahrir ha rotto gli argini. E da ieri sera parte della protesta ha raggiunto il vicino parlamento e la residenza privata del primo ministro Ahmed Shafiq. Migliaia di persone sfidano direttamente i simboli del potere. Gli slogan sono gli stessi, il popolo chiede la fine del regime. Per ora l'esercito lascia fare, ha soltanto concentrato qualche carro armato in più davanti al parlamento, che è stato evacuato ed è presidiato dai militari. Nessuna tensione però con i manifestanti. Al contrario, la strada del parlamento è aperta, non c'è nessun controllo da parte dei militari, nessuna barricata, ma dopotutto il presidio è estremamente pacifico per il momento. Ma di fatto il parlamento è assediato dal popolo e la sua attività completamente paralizzata. Migliaia di persone hanno ricoperto di tappeti e coperte la strada del parlamento, dove già ieri notte si sono fermati a dormire e si avviano a dormire oggi per la seconda notte, riparati da strisce di nylon trasparente sotto un'improvvisata tendopoli. Tanti i giovani, ma anche tante famiglie, donne e bambini piccoli. Oltre a qualche sub come si vede dalla foto.
La gente è determinata come non mai a andare avanti fino alla fine. Colpisce ormai l'irriverenza verso il potere. Hanno tappezzato la cancellata del parlamento, presidiata al suo interno dai militari, con cartelli con su scritto “Chiuso per pulizia” e “Chiuso fino alla fine del regime”. Per strada, al ritmo dei tamburelli, rimbalzano di bocca in bocca gli irriverenti stornelli popolari ormai mandati a memoria dai menestrelli della piazza. E poi ci sono i poster satirici, che ritraggono il vecchio tiranno in caricature e fotomontaggi. Ce n'è anche uno in cui si vede Mubarak arrestato dalla polizia. Accanto c'è scritto: "Dove sono finiti i 70 miliardi di dollari?"
Si tratta di una notizia uscita venerdì scorso in Inghilterra, su The Guardian, e che in poche ore ha fatto il giro del paese grazie al tam tam della rete. Si tratta della fortuna accumulata dalla famiglia Mubarak in trent'anni ai vertici del paese, e in buona parte trasferita all'estero su conti segreti in Svizzera e Gran Bretagna. È una cifra strabiliante in un paese dove milioni di persone faticano a arrivare a cento euro al mese. Lo striscione è appeso davanti all'ingresso del parlamento. E c'è la fila di gente che si fa fare la foto ricordo ingiuriando il presidente, che oggi per la prima volta è scomparso dai titoli della stampa vicina al potere. Ed esempio Al Ahram, che stamattina in prima pagina dava spazio soltanto al nuovo vicepresidente Suleiman, il che vorrà pure dire qualcosa.
La gente in piazza ha il morale alle stelle, tutti credono al cambiamento. E commuove questo desiderio di rinominare le cose, di ridefinire i propri spazi e la propria storia. Dopo i cartelli che nei giorni scorsi chiedevano di rinominare piazza Tahrir in piazza dei martiri, oggi davanti al parlamento, che si affaccia in via del parlamento, qualcuno gira con un cartello con su scritto "via del popolo".
Come a Tahrir, anche qui c'è gente venuta da lontano. Il professor Refat è uno di loro. È arrivato da Bani Suwayf, dove lavora come preside in una scuola media. Sulla quarantina, laureato in lingua e letteratura araba all'università al Azhar al Cairo, a casa ha lasciato la moglie e le due bambine, una settimana fa, quando è partito. Da allora dorme per strada, a piazza Tahrir. E vive grazie alla solidarietà della gente del Cairo. La stessa solidarietà che stasera ci ha servito una cena a base di pane, uova sode, formaggini e datteri, questi ultimi distribuiti da un bimbo di strada sporco che faceva impressione, eppure così contento di essere in mezzo a una comunità tanto aggregante e accogliente.
Il professor Refat aspetta questo momento da trent'anni. Lo fa per il futuro delle bambine. E non intende mollare, costasse pure la vita. “Siamo tutti pronti, la paura l'abbiamo bruciata il 28 gennaio. Se vogliono tornare con i proiettili lo facciano, qua siamo tutti pronti a morire”. C'è da credergli. Anche perché a differenza di piazza Tahrir, il parlamento è uno spazio chiuso, un reticolato di strade dove basterebbero dieci blindati per chiudere ermeticamente l'isolato e fare una strage dei manifestanti. Ma almeno per ora le disposizioni sembrano essere altre.
Visto da questa piazza, Mubarak sembra avere le ore contate. Anche perché nel frattempo è insorto anche il sud ovest del paese, dove ieri ci sono stati 3 morti e 100 feriti negli scontri con la polizia. Si tratta di una regione che finora non aveva dato segnali di rivolta. E intanto continuano le proteste nel resto del paese. Oltre a Alexandria, dove ogni giorno, come al Cairo, ci sono presidi e manifestazioni, oggi è stata la volta della città industriale di Mahalla e di Suez, la città del canale, entrambe bloccate da uno sciopero, che a Suez ha visto partecipare anche gli impiegati dell'amministrazione della società del canale. Per ora i portuali non hanno incrociato le braccia, ma se lo facessero sarebbe davvero un brutto colpo per l'economia del paese.
Intanto su internet iniziano a circolare i video che proverebbero la fuga organizzata dei criminali dalle carceri del paese, poi impiegati al soldo della polizia per seminare il panico al Cairo. Pare addirittura che il generale Mohamed El Batan sia stato assassinato nella prigione di Qata proprio perché era contrario al piano del ministero dell'interno. Cronache a cui si stenta a credere, dopo che per trent'anni ci è stato presentato il regime egiziano come modello di stabilità. Stabilità, questa parola magica in nome della quale siamo tutti pronti a sacrificare la libertà altrui per la difesa dei propri interessi strategici. Ma ormai è tardi. Il giocattolo si è rotto. Dopo generazioni di tirannia, la nuova gioventù ha rialzato la testa. In Tunisia, come in Egitto, in Yemen come in Libia, dove la gioventù tramite facebook sta facendo girare la voce per una grande protesta contro Gheddafi il prossimo 17 febbraio.
In Egitto invece gli appuntamenti sono due. Giovedì 10 è in programma un grande sciopero nazionale, soprattutto nelle fabbriche del tessile a Mahalla. E poi c'è il grande appuntamento per venerdì 11 febbraio. Sarà il terzo venerdì di piazza. E dopo il venerdì della rabbia e il venerdì della partenza, adesso si celebrerà il venerdì dei martiri, dedicato a tutti i giovani ammazzati dalla polizia di Mubarak e dai suoi squadristi. Nessuno sa dove entrerà, ma tutti si aspettano una folla ancora più oceanica del milione di persone scese in piazza martedì. Una folla che non si accontenta del rilascio degli 840 prigionieri avvenuta tra ieri e oggi, compresi 34 detenuti politici delle file dei Fratelli Musulmani, nè delle proposte del vice presidente Suleiman di una commissione per la riforma della costituzione e dell'aumento dei salari. La libertà non è in vendita, e il popolo vuole la fine del regime. Che possa essere la volta buona?