CAIRO - “La libertà è una benedizione per cui vale la pena lottare”. Twitter, 8 febbraio 2011. Sono le prime parole postate in rete da Wael Ghonim, il nuovo eroe di piazza Tahrir, che lunedì ha commosso l'Egitto con una sua intervista a Dream Tv. È il numero uno di Google in Egitto, e da 12 giorni era semplicemente scomparso. Di lui non si sapeva più niente, se fosse stato ucciso o arrestato. Ieri ha raccontato di essere stato sequestrato la notte tra il 27 e il 28 gennaio, all'una di notte, da quattro agenti in borghese che lo hanno acciuffato per strada mentre aspettava un taxi con un amico. Lo hanno portato via bendato e ammanettato, e la benda dagli occhi non gliel'hanno tolta per tutti i dodici giorni di detenzione, durante i quali è stato sottoposto a insistenti interrogatori, accusato di essere un cospiratore al soldo degli Stati Uniti o dell'Iran. Al pubblico ha chiesto di non stampare manifesti con la sua immagine, di non fare di lui un eroe. Perché gli eroi sono altri. Sono i ragazzi morti in piazza sotto gli spari dei cecchini di Mubarak e delle bande criminali dei baltagia.
Quando ieri nell'intervista a Dream Tv, la conduttrice Mona al Shazly ha fatto scorrere le immagini dei martiri, Wael non ce l'ha fatta a trattenersi ed è scoppiato in un pianto liberatorio. “Voglio dire a ogni padre e a ogni madre che ha perso suo figlio, che non è colpa nostra. Lo giuro su dio, non è colpa nostra. É colpa di tutti quelli che tengono in mano il potere con avidità e non lo lasciano andare”. Con lui si è commosso tutto il paese. Perché Wael è il simbolo di questa rivoluzione. Trentenne, capo esecutivo di Google per il Medio Oriente, sposato con un'americana, è l'amministratore del gruppo facebook più importante in Egitto. Si chiama “Tutti noi siamo Khaled Saied” e conta più di 540.000 iscritti. È da qui che è nata la rivolta. Ben prima della rivoluzione in Tunisia.
Comincia tutto il 7 giugno 2010. Siamo a Alessandria. Quella sera Khaled Saied (il ragazzo della foto) si presenta al solito internet caffé a Sidigaber. Arrivano due poliziotti, si chiamano Mahmoud Alfallah e Awaad Elmokhber. Chiedono a tutti i documenti con la solita arroganza. Khaled rifiuta di mostrare le proprie carte e per questo viene aggredito brutalmente. Prima lo riempiono di calci e poi gli fracassano la faccia contro un ripiano di marmo. Dopodiché lo trascinano ancora sanguinate dentro la macchina, diretti al commissariato di polizia, dove lo finiscono inferociti. A quel punto, per non destare sospetti, abbandonano in mezzo alla strada il cadavere martoriato dalla violenza. Non è il primo caso, nè l'ultimo. Ma stavolta qualcuno trova il coraggio di far circolare le fotografie del volto massacrato di Khaled. E il resto lo fa la rete.
Grazie all'attivismo di Wael Ghonim e del suo gruppo su facebook, emergono altri casi di tortura e iniziano a circolare dati come quelli raccolti dall'Organizzazione egiziana per i diritti umani, che dal 1993 al 2007 ha documentato 567 casi di tortura nei commissariati di polizia, 167 dei quali finiti con la morte della vittima. Ne nascono accesi dibattiti sui forum online. Viene rimessa in discussione la legge di stato di emergenza che governa il paese dalla salita al potere di Mubarak nel 1981, si apre una discussione sulla corruzione. E non solo sulla pagina di Ghonim.
Su facebook infatti c'è un altra importantissima pagina. Si chiama "I ragazzi del 6 aprile", conta più di 90.000 iscritti, ed è nato nel 2008, da un'idea di Ahmed Maher e Ahmed Salah, come gruppo di sostegno allo sciopero generale lanciato dai lavoratori di Mahalla el Kubra, città industriale a un'ora dal Cairo, per il 6 aprile appunto. È un'iniziativa sovversiva, in quanto sotto la legge di emergenza gli scioperi sono vietati. Internet diventa l'unico mezzo per organizzarsi e aggiornarsi in tempo reale sulle proteste messe in piedi in molte città d'Egitto. La giornata finisce con due morti ammazzati dalla polizia a Mahalla e con l'arresto di decine di attivisti e blogger, compreso il coordinatore di Kifaya, un movimento di opposizione nato nel 2004.
Tutte queste forze riunite lanciano su internet una grande manifestazione contro la tortura e la violenza della polizia e per la fine della legge di emergenza. Viene scelta la data del 25 gennaio appunto, che in Egitto è la festa della polizia. È una festa istituita dallo stesso Mubarak, due anni fa, nel 2009, per commemorare la strage dei 50 poliziotti ammazzati il 25 gennaio del lontano 1952 dall'esercito inglese dopo aver rifiutato di ritirarsi dal commissariato di Ismailia.
Nel frattempo però scoppia la rivoluzione in Tunisia e il 14 gennaio Ben Ali abbandona il paese. L'esito vittorioso di quella rivoluzione alimenta le speranze dei giovani egiziani. Lo stesso può accadere anche in Egitto. E allora i social network alzano la posta in gioco e rilanciano un appello per la fine del regime. Il resto lo fa la gente. Perché non avrebbe senso oggi cercare i leader della piazza. La protesta è ormai dilagante e spontanea e coinvolge tutta la popolazione e tutto il paese. Non c'è organizzazione, né ci sono leader, dietro ai milioni di persone che in queste due settimane sono sces in piazza a chiedere la testa di Mubarak. Quella protesta oggi entra nel suo quindicesimo giorno con l'aspettativa di una grande concentramento a piazza Tahrir, dove potrebbe prendere la parola lo stesso Wael Ghonim.
Ad accoglierlo ci saranno le immagini di decine di martiri. I nuovi manifesti sono iniziati a circolare due giorni fa, dopo le pubblicazioni delle prime biografie sul quotidiano Almasri Alyoum. Alcuni ritraggono ragazzi sorridenti, altri invece mostrano le crude immagini di volti insanguinati e senza vita delle vittime. Gli slogan scritti sopra le foto sono gli stessi: “Il sangue dei martiri non va perduto”. Oppure: “Non ti dimenticheremo”. C'è la foto del bambino di 10 anni ucciso a Rafah, Bilal Salim Aisa Muhamad. C'è la foto di Islam Refaat Mahmud, 35 anni, ucciso a Alexandria. E poi Hitham Hamidi, 33 anni, proprietario di una piccola ditta di materiali elettronici, asfissiato dai lacrimogeni il 28 gennaio al Cairo. Hussein Mohammed, 25 anni, investito da un'automobile della polizia al Cairo il 28 gennaio. E poi ancora Ali Fathi, Karim Bnuna, Hussein Qawni Mohammed, Ahmed Sherif Mohammed, Mahmud Mohammed Hasan, Seif Allah Mustafa, Habiba Mohammed Rashid e la ragazza uccisa dai baltagia a piazza Tahrir mercoledì scorso, Sali Zahran.
Quelle immagini danno coraggio alla piazza. Nessuno da qui sembra disposto ad andarsene prima della caduta del regime. Qualcuno ha scritto su un cartello: “Dio perdonami perché avevo paura e ho taciuto”. Bene, la paura adesso non c'è più. E la settimana si annuncia carica di nuove manifestazioni in tutto l'Egitto.
In strada oggi torneranno anche gli attivisti del Hisham Mubarak Centre arrestati giovedì scorso dalla polizia militare e finalmente rilasciati sabato, senza accuse a loro carico, dopo 48 ore di ansia in cui nessuno sapeva che fine avessero fatto. La conferma arriva da Nadim Mansur, coordinatore delle attività di ricerca del centro che dal 1999 fornisce supporto legale a migliaia di cittadini, grazie alla sua rete di avvocati in tutto il paese. Alla sede del centro, in via Suq Tawfiqiya, tutti hanno colto il messaggio intimidatorio delle autorità egiziane, ma sono decisi a riprendere il lavoro, nonostante le mille difficoltà. L'irruzione di giovedì scorso ha portato all'arresto di 25 attivisti del Hicham Mubarak Centre e dell'Egyptian Center for Economic and Social Rights, compresi due militanti di Amnesty International, uno di Human Rights Watch e due giornalisti francesi. Con le pistole puntate addosso e sotto la minaccia di morte, sono stati caricati sui mezzi militari e portati in un centro dei servizi militari, al Cairo, dove hanno subito un interrogatorio, fortunatamente senza subire torture.
I militari hanno anche sequestrato tutti i computer del centro, lasciando poi il resto del lavoro a una banda di criminali assoldati per l'occasione, i famosi baltagia, che armati di spranghe e coltelli hanno portato via dal centro tutto quello che c'era da rapinare. Al punto che oggi, il primo problema è capire come riorganizzare il materiale degli oltre 700 casi che gli avvocati del centro hanno seguito durante gli ultimi dodici mesi. Ma qui nessuno si arrende. E anzi stanno tutti tornando a lavorare sul dossier che molto probabilmente sta alla base della spedizione dei militari della settimana scorsa.
Si tratta del file sulla strage dei martiri. Secondo le informazioni raccolte dal centro, le vittime sarebbero almeno 200 al Cairo, e tra i tre e i quattrocento in tutto il paese. I bollettini degli ospedali del Cairo parlano di 145 morti censiti nei cinque principali ospedali e di altri 60 negli ospedali minori. A cui vanno aggiunti le decine di morti nelle altre regionoi, soprattutto a Suez e Alexandria. L'obiettivo è lanciare una campagna di informazione che possa poi portare anche e soprattutto a delle azioni legali contro i responsabili del massacro.
Perché dietro alla strage c'è un preciso disegno del governo. Che prima ha ritirato la polizia dalle strade della città, per poi liberare i prigionieri dalle carceri e mandarli affiancati da poliziotti in borghese a terrorizzare la gente in piazza e nei quartieri. Fortunatamente la gente si è organizzata, con i comitati di quartiere che per giorni hanno controllato 24 ore su 24 gli accessi a tutte le strade e i palazzi, armati di spranghe e mannaie. Adesso la situazione è rientrata, ma qualcuno inizia a essere stanco di questa situazione di stallo. Le banche sono chiuse, le scuole pure. Qualcuno inizia a dire che sì siamo d'accordo con i ragazzi della rivoluzione, ma visto che Mubarak non parte, piazza tahrir deve svuotarsi, perché dobbiamo tornare a vivere in tranquillità. Mubarak lo ha capito. E sta prendendo tempo. Ma la piazza è ancora calda, ogni giorno transitano dal sit in almeno centomila persone e nessuno è disposto a mollare questo pacifico assedio.
Gente come Ahmed, studente del quarto anno di ingegneria, che ieri sera mi ha tenuto due ore a parlare, mostrandomi sul cellulare i video girati durante gli scontri di venerdì 28 gennaio, spiegandomi le tattiche di guerriglia che avevano adottato per costruire le barricate dietro cui difendersi, facendo inaspettati paragoni con certi videogiochi. E poi le foto della sorella, colpita alla gamba da un proiettile a pallini, di quelli usati per la caccia. Ahmed ci crede ancora, dà per scontata la vittoria e già discute sul dopo Mubarak, con un totocandidato che assomiglia ai titoli in prima pagina sui giornali dell'opposizione di questa mattina.
Personalmente, mentre mi avvio in piazza Tahrir, in testa ho una sola domanda: cosa succederà se questi ragazzi non otterranno niente con questa straordinaria protesta pacifica? Ma poi ripenso a Gramsci, e al pessimismo della ragione affianco l'ottimismo della volontà. Fate circolare queste informazioni, il popolo egiziano merita tutta la solidarietà del mondo.