SUEZ – Di tutta la rivoluzione alla fine alla mamma di Aslam non rimarrà che un cappotto nero. All'apparenza sembra nuovo, ma guardando con attenzione si vede un foro largo come un dito, passa da parte a parte, all'altezza della schiena. È il foro del proiettile che si è portato via la vita di questo ragazzo di 21 anni, lo scorso 28 gennaio, nella strage dimenticata della rivoluzione d'Egitto. La strage di Suez, la città del canale, dove tra il 25 e il 28 gennaio i cecchini della polizia di Mubarak hanno assassinato 24 ragazzi e ferito altre 310 persone. Aslam l'hanno ammazzato il venerdì della rabbia, il 28 gennaio, intorno alle 21,00. La madre di Aslam mi passa alcune fototessere del figlio. È vestita a lutto, attorna a lei siedono i due fratelli e la sorella di Aslam. Il papà invece non c'è, perché è morto tanti anni fa, quando Aslam era ancora bambino. Chissà, magari tra qualche anno quelle foto e quel cappotto saranno custodite in una teca nel museo dei martiri della rivoluzione di Suez.
La sede c'è già. E si trova a pochi passi da dove hanno ammazzato Aslam, sul viale dell'esercito, dopo la moschea degli Arba'in. Il palazzo è irriconoscibile, perché devastato dalle fiamme: i muri sono anneriti dal fumo, gli infissi carbonizzati e all'interno è una montagna di cenere. Sulla facciata qualcuno ha scritto con la bomboletta spray: “Museo degli Arba'in. Ingresso libero”. Perché è in questa strada che si è consumata la strage del 28 gennaio e quello che i manifestanti hanno dato alle fiamme dopo una notte di guerriglia era la sede del commissariato di polizia. I cecchini quella notte erano appostati sui tetti dei palazzi qua intorno. Hanno ucciso a sangue freddo, colpendo i manifestanti alla testa e al cuore. A dirlo è un medico di Suez, che parla davanti a un registratore, ma di cui preferisco tacere l'identità.
Il dottore mi fa vedere sul cellulare il video del piccolo Islam, un bambino di dieci anni ucciso da un proiettile sparato nella pancia. L'ha girato il 28 gennaio, all'ospedale di Suez. Quel giorno di cadaveri ne ha visti altri sei. “Erano tutti morti per colpi da arma da fuoco, colpiti alla testa o al petto”. Come dire che non sono stati ammazzati per errore. La polizia non ha sparato in aria o alle gambe, ma ha deliberatamente colpito per uccidere. “In quale altra parte del mondo l'autorità ordina di sparare sul proprio popolo in una manifestazione pacifica? Ho visto scene che nemmeno in guerra. Non c'è nessuna spiegazione, nessuna giustificazione che spieghi il ricorso a questi crimini. Perché sono dei crimini, chi li ha commessi non ha un briciolo di umanità”.
Le sue parole sono confermate da un documento ufficiale, redatto nell'ospedale di Suez, che contiene la lista completa dei nomi di 19 morti ammazzati tra il 25 e il 28 gennaio, cui vanno aggiunte altre 5 vittime, per un totale di 24.
In quell'elenco c'è pure il nome di Sherif Said Redouan, classe 1979, che quel 28 gennaio era sceso in piazza con il fratello. Quella sera, quando sono cominciati gli scontri con la polizia i due fratelli si sono persi di vista. Sherif l'hanno ritrovato in ospedale qualche ora dopo, in un bagno di sangue, con una pallottola piantata nel petto e un'altra nel collo. Sono passate due settimane da allora, e il padre sembra avere finito le lacrime. Racconta la storia del figlio senza scomporsi. Gli occhi lucidi e lo sguardo appeso alla cornice del figlio martire appesa in salotto.
Sono il primo giornalista che queste due famiglie incontrano. Ma per fortuna la società civile egiziana si è già mossa. Alcuni avvocati, medici e sindacalisti della città stanno raccogliendo tutte le informazioni del massacro. E un team di Amnesty International è sul luogo per preparare un rapporto, mentre Human Rights Watch ha già pubblicato un'indagine martedì scorso (vedi video). Certo, la volontà del regime sembra quella di tenere bassa l'attenzione su quanto accaduto nella città del canale. Già mercoledì a un giornalista della Npr era stato vietato di raggiungere la città. Dopotutto da qui transita una delle rotte marittime più importanti al mondo, decine di navi cargo al giorno che garantiscono un gettito di cinque miliardi di dollari all'anno allo stato egiziano. Un fiume d'oro che non può rischiare di rallentarsi per qualche notizia di troppo sulle rivolte in città. Che fra l'altro continuano anche adesso che la polizia ha battuto in ritirata e che Suez è presidiata dai carri armati dell'esercito. Con due differenze. La prima è che sono tutte pacifiche, visto che l'esercito non ha mai attaccato i manifestanti, a differenza di quanto fece la polizia. La seconda è che iniziano a sentirsi rivendicazioni economiche, come negli scioperi che mercoledì scorso hanno bloccato alcuni settori produttivi, tra cui gli amministrativi della società del canale. Ma per il resto, la partita si gioca a livello nazionale, e ormai sembra davvero che gli eventi stiano precipitando nel peggiore degli scenari possibili.
Io me ne sono accorto solo quando mi sono risvegliato. Mi ero appisolato una mezz'ora dopocena mentre riascoltavo le interviste di oggi. Quando ho riaperto gli occhi ho visto Mubarak. Videomessaggio alla nazione, sul canale della tv di stato. Ore 23,00 egiziane di giovedì 10 febbraio. Piazza Tahrir è gremita, perché è tutto il giorno che si susseguono fughe di notizie sulle sue imminenti dimissioni. E invece niente. Il vecchio faraone annuncia il contrario. Non si dimette, e per ora è capace soltanto di vaghe promesse: un parziale passaggio dei poteri al vicepresidente Omar Suleiman, già capo dei servizi segreti, quindi una transizione verso libere elezioni in settembre, in cui garantisce di non presentarsi, e qualche apertura verso riforme costituzionali e abolizione dello stato di emergenza con cui governa il paese da trent'anni. E subito dopo le sue parole arriva il messaggio del vicepresidente Omar Suleiman, che è un ulteriore schiaffo ai milioni di egiziani in piazza. Il numero due di Mubarak torna a citare il terrorismo e il ruolo delle potenze internazionali e della stampa estera nel mobilitare il popolo egiziano contro gli interessi della nazione, e invita tutti ancora una volta a tornare a casa.
C'è da avere paura. Perché la piazza adesso è molto arrabbiata e delusa. Sono diciassette giorni che milioni di egiziani chiedono la fine del regime, la fine della corruzione e dello stato di polizia. E in tutto questo periodo il governo non ha capito niente. Non ha capito che il paese è maturo per uno stato di diritto, e che il popolo è fatto di individui consapevoli dei propri diritti, delle proprie libertà e della propria dignità. Nessuno è disposto a tornare a casa. Al contrario, domani è prevista la più grande manifestazione dall'inizio della rivoluzione. In piazza saremo almeno un milione, troppi per essere dispersi con la forza.
La sede c'è già. E si trova a pochi passi da dove hanno ammazzato Aslam, sul viale dell'esercito, dopo la moschea degli Arba'in. Il palazzo è irriconoscibile, perché devastato dalle fiamme: i muri sono anneriti dal fumo, gli infissi carbonizzati e all'interno è una montagna di cenere. Sulla facciata qualcuno ha scritto con la bomboletta spray: “Museo degli Arba'in. Ingresso libero”. Perché è in questa strada che si è consumata la strage del 28 gennaio e quello che i manifestanti hanno dato alle fiamme dopo una notte di guerriglia era la sede del commissariato di polizia. I cecchini quella notte erano appostati sui tetti dei palazzi qua intorno. Hanno ucciso a sangue freddo, colpendo i manifestanti alla testa e al cuore. A dirlo è un medico di Suez, che parla davanti a un registratore, ma di cui preferisco tacere l'identità.
Il dottore mi fa vedere sul cellulare il video del piccolo Islam, un bambino di dieci anni ucciso da un proiettile sparato nella pancia. L'ha girato il 28 gennaio, all'ospedale di Suez. Quel giorno di cadaveri ne ha visti altri sei. “Erano tutti morti per colpi da arma da fuoco, colpiti alla testa o al petto”. Come dire che non sono stati ammazzati per errore. La polizia non ha sparato in aria o alle gambe, ma ha deliberatamente colpito per uccidere. “In quale altra parte del mondo l'autorità ordina di sparare sul proprio popolo in una manifestazione pacifica? Ho visto scene che nemmeno in guerra. Non c'è nessuna spiegazione, nessuna giustificazione che spieghi il ricorso a questi crimini. Perché sono dei crimini, chi li ha commessi non ha un briciolo di umanità”.
Le sue parole sono confermate da un documento ufficiale, redatto nell'ospedale di Suez, che contiene la lista completa dei nomi di 19 morti ammazzati tra il 25 e il 28 gennaio, cui vanno aggiunte altre 5 vittime, per un totale di 24.
In quell'elenco c'è pure il nome di Sherif Said Redouan, classe 1979, che quel 28 gennaio era sceso in piazza con il fratello. Quella sera, quando sono cominciati gli scontri con la polizia i due fratelli si sono persi di vista. Sherif l'hanno ritrovato in ospedale qualche ora dopo, in un bagno di sangue, con una pallottola piantata nel petto e un'altra nel collo. Sono passate due settimane da allora, e il padre sembra avere finito le lacrime. Racconta la storia del figlio senza scomporsi. Gli occhi lucidi e lo sguardo appeso alla cornice del figlio martire appesa in salotto.
Sono il primo giornalista che queste due famiglie incontrano. Ma per fortuna la società civile egiziana si è già mossa. Alcuni avvocati, medici e sindacalisti della città stanno raccogliendo tutte le informazioni del massacro. E un team di Amnesty International è sul luogo per preparare un rapporto, mentre Human Rights Watch ha già pubblicato un'indagine martedì scorso (vedi video). Certo, la volontà del regime sembra quella di tenere bassa l'attenzione su quanto accaduto nella città del canale. Già mercoledì a un giornalista della Npr era stato vietato di raggiungere la città. Dopotutto da qui transita una delle rotte marittime più importanti al mondo, decine di navi cargo al giorno che garantiscono un gettito di cinque miliardi di dollari all'anno allo stato egiziano. Un fiume d'oro che non può rischiare di rallentarsi per qualche notizia di troppo sulle rivolte in città. Che fra l'altro continuano anche adesso che la polizia ha battuto in ritirata e che Suez è presidiata dai carri armati dell'esercito. Con due differenze. La prima è che sono tutte pacifiche, visto che l'esercito non ha mai attaccato i manifestanti, a differenza di quanto fece la polizia. La seconda è che iniziano a sentirsi rivendicazioni economiche, come negli scioperi che mercoledì scorso hanno bloccato alcuni settori produttivi, tra cui gli amministrativi della società del canale. Ma per il resto, la partita si gioca a livello nazionale, e ormai sembra davvero che gli eventi stiano precipitando nel peggiore degli scenari possibili.
Io me ne sono accorto solo quando mi sono risvegliato. Mi ero appisolato una mezz'ora dopocena mentre riascoltavo le interviste di oggi. Quando ho riaperto gli occhi ho visto Mubarak. Videomessaggio alla nazione, sul canale della tv di stato. Ore 23,00 egiziane di giovedì 10 febbraio. Piazza Tahrir è gremita, perché è tutto il giorno che si susseguono fughe di notizie sulle sue imminenti dimissioni. E invece niente. Il vecchio faraone annuncia il contrario. Non si dimette, e per ora è capace soltanto di vaghe promesse: un parziale passaggio dei poteri al vicepresidente Omar Suleiman, già capo dei servizi segreti, quindi una transizione verso libere elezioni in settembre, in cui garantisce di non presentarsi, e qualche apertura verso riforme costituzionali e abolizione dello stato di emergenza con cui governa il paese da trent'anni. E subito dopo le sue parole arriva il messaggio del vicepresidente Omar Suleiman, che è un ulteriore schiaffo ai milioni di egiziani in piazza. Il numero due di Mubarak torna a citare il terrorismo e il ruolo delle potenze internazionali e della stampa estera nel mobilitare il popolo egiziano contro gli interessi della nazione, e invita tutti ancora una volta a tornare a casa.
C'è da avere paura. Perché la piazza adesso è molto arrabbiata e delusa. Sono diciassette giorni che milioni di egiziani chiedono la fine del regime, la fine della corruzione e dello stato di polizia. E in tutto questo periodo il governo non ha capito niente. Non ha capito che il paese è maturo per uno stato di diritto, e che il popolo è fatto di individui consapevoli dei propri diritti, delle proprie libertà e della propria dignità. Nessuno è disposto a tornare a casa. Al contrario, domani è prevista la più grande manifestazione dall'inizio della rivoluzione. In piazza saremo almeno un milione, troppi per essere dispersi con la forza.