04 February 2011

Tahrir: il giorno della partenza



Cairo. Secondo giorno a Piazza Tahrir. Il signor Mohamed ha 61 anni, occhiali da sole e una mascherina antigas legata al collo. La settimana scorsa aveva il volo di ritorno per l'Arabia Saudita, dove ormai vive da 35 anni con tutta la famiglia. Ma quando ha visto sollevarsi la gioventù, ha deciso di annullare tutto per assistere alla fine del regime. “Da qui non mi smuovo, lo faccio per questi ragazzi”, mi dice indicandomi la folla. Sono le 16,00 di venerdì 4 febbraio, ribattezzato il venerdì della partenza, dopo il venerdì della rabbia della settimana scorsa, e finalmente, dopo aver passato tutta la mattina bloccato dai militari, sono riuscito a entrare a piazza Tahrir, accolto dai cori diretti a Mubarak: “Irhal! Irhal!”, ovvero “Parti, vattene!”

Mentre parlo con Mohamed, si avvicina un altro signore, sulla quarantina, si chiama Alaa. Ci ascolta parlare, mi chiede se sono italiano. Poi allunga la mano in tasca e mi regala un santino con una madonna e un bambino. Mohamed si mette a ridere e inizia a tirarsi la barba lunga sotto il mento. “Vedi – mi dice – il popolo oggi è unito, io con i fratelli musulmani, lui cristiano copto, siamo tutti per la fine di Mubarak”. Che poi è il senso di quei manifesti che avevo visto in piazza con la mezza luna e la croce, e che è ritratta anche sulla maglietta del ragazzo nella fotografia di questa pagina, diffusa da Aljazeera, come a dire che il popolo egiziano è unito nella lotta alla dittatura.

La stessa cosa che mi avevano detto Sarah e Marwa, due studentesse universitarie della facoltà di biologia che avevo incontrato mezz'ora prima, dal lato del museo egizio. Viste da piazza Tahrir le preoccupazioni degli analisti sembrano campate in aria. Nessuno ha paura dell'islam, e comunque il discorso della piazza ha un lessico prettamente politico. “Vogliamo tagliare con il passato – dice Marwa –, ognuno di noi ha opinioni diverse, ma Mubarak se ne deve andare e con lui tutto il sistema di corruzione e di repressione che ha governato l'Egitto negli ultimi 30 anni”.

“Trent'anni di bugie”, come è scritto con un pennarello nero su un vecchio cartone marrone stretto tra le mani di un signore arrivato dai quartieri poveri, le scarpe rotte e la faccia scavata da una vita di fatica. È arrivato il momento di parlare. Di esprimere la propria opinione, finalmente. È allora la piazza diventa un'agorà, un primo esercizio di democrazia, fatto di comizi e di cortei. Per terra, i più giovani armati di pennelli e vernice rossa e nera, dipingono i loro slogan sui cartoncini bianchi. “Basta parole!”, “Ne abbiamo abbastanza”, “C'è stato un parto, e il nuovo nato si chiama libertà”.

A fermare la piazza c'è solo una cosa: la preghiera. Succede cinque volte al giorno. In quel momento cala il silenzio, e la massa disordinata della folla prende una forma ordinata. Tutti in fila, fianco a fianco, una fila dietro l'altra, gli occhi chiusi, nella direzione di Mecca, verso oriente. Poi c'è un momento magico, in cui la folla diventa fluida, e le migliaia di persone che si genuflettono sull'asfalto diventano un'onda che accompagna lo sguardo verso ponente, dove il sole nascosto dalle nubi inizia a arrossare il cielo. La penombra della sera scende velocemente. E sopra la folla sventola la bandiera dell'Egitto, tenuta in mano da un ragazzo che si è arrampicato in piedi sopra un semaforo, con il braccio teso verso la vittoria, cha a vederlo da lontano sembrerebbe una statua, se non fosse per i due manichini di Mubarak che dondolano a mezz'aria, impiccati allo stesso semaforo, messi lì da chi chiede giustizia contro il “presidente assassino”.

Cosa accadrà domani nessuno lo sa bene. L'unica certezza è che mash namshiu, huwa yamshi, dalla piazza nessuno se ne va finché Mubarak non se ne sarà andato. Nemmeno i feriti dei giorni scorsi. Anche loro sono tornati a manifestare. Se ne vedono a dozzine, dappertutto. Si riconoscono da lontano, per le bende bianche intorno alla testa, frutto della sassaiola di mercoledì e degli scontri con la polizia della settimana scorsa. E contro nuove sassaiole, alcuni si sono premuniti portando in piazza dei caschi fatti con delle pentole. La stessa pentola che ormai è saltata.

Il signor Outhman non ha dubbi. In piazza c'è anche lui. È venuto con la moglie, sono due signori anziani. E prima di entrare si è fermato a salutare i ragazzi dell'esercito, perché è un ex generale, ormai in pensione, e hanno scherzato sul fatto che ormai pure i carri armati sono ricoperti di scritte contro il presidente. “L'Egitto è come una pentola – mi dice -, una pentola sul fuoco, se non togli il coperchio in tempo, prima o poi esplode. Ci abbiamo messo trent'anni, ma alla fine siamo esplosi”.

Viene voglia di pensare che il signor Outhman abbia ragione, che davvero la libertà possa prendere il volo, come le bandiere dell'Egitto che sventolano nelle mani dei ragazzi a Tahrir. Il popolo ha scelto, mi ha detto Marwa. E lì ho capito che stava per citarmi Chebbi, il grande poeta di Tozeur che anche a Tunisi era sulla bocca di tutti: “Se un giorno il popolo sceglierà la vita, non c'è dubbio che il destino si piegherà al suo volere”.


Questo è soltanto un racconto di piazza Tahrir, per seguire l'attualità in diretta dall'Egitto vi consigliamo lo speciale live di Aljazeera English e se volete partecipare alla piazza virtuale di Tahrir, visitate la pagina
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