03 February 2011

Al Cairo, con i ragazzi di piazza Tahrir


L'altra immagine del Cairo. Perché accanto alla guerriglia urbana, c'è anche una catena umana di egiziani cristiani che proteggono i manifestanti musulmani durante la preghiera. Il luogo è lo stesso degli scontri di mercoledì tra manifestanti e miliziani di Mubarak. Piazza Tahrir. Un luogo dove si sta scrivendo la storia. Dove per la prima volta in trent'anni centinaia di migliaia di egiziani scendono in piazza e dicono Shaab yurid isqat annizam: il popolo vuole la caduta del regime. Dopo il mio viaggio a Tunisi, non potevo non raccontarvi anche i ragazzi della rivoluzione d'Egitto.

Per capire la portata di quello che sta accadendo, immaginatevi se una cosa simile fosse accaduta contro Mussolini in piazza Venezia alla fine degli anni Trenta. Perché questo è il clima. Di un popolo in rivolta contro la dittatura, la corruzione della casta e la violenza della polizia. Domani piazza Tahrir, che per coincidenza in arabo vuol dire piazza della liberazione, tornerà a riempirsi. Sono attese centinaia di migliaia di persone, dopo la preghiera del venerdì. Sono venuto a raccontare queste giornate, perché non mi stancherò mai di dirlo, il racconto della frontiera non può prescindere da un racconto più ampio, sulla gioventù nel Mediterraneo e sulle sue prospettive. E noi da questi ragazzi che per cambiare il proprio destino si sanno ribellare, anche a costo della vita, abbiamo solo da imparare. Dopotutto la modernità non è proprio questo? Scegliere il proprio destino?

E allora, dopo la qasbah di Tunisi, oggi non si può non essere tutti a Tahrir. Chi fisicamente e chi col cuore. Perché in questa piazza si gioca il futuro di un'intera generazione che chiede dignità e libertà. Con molte similitudini con la rivoluzione di Tunisi. Anche qui in piazza ci sono tutte le classi sociali. Uomini e donne, padri e figli, poveri analfabeti e professori universitari, avvocati e disoccupati, donne delle pulizie e medici, giunti qui in modo spontaneo e senza l'organizzazione di un partito, nè la presenza di un leader vero e proprio. Anche qui il popolo si è riappriopriato di simboli come la bandiera nazionali e le canzoni patriottiche, finora vessillo del regime. E anche qui in piazza le parole chiave sono hurriya, libertà, isqat ennizam, la caduta del regime, e huquq, diritti. Appesi a un semaforo poi ci sono due manichini di Mubarak impiccati. Su un cartello c'è scritto "presidente assassino". Il riferimento è agli oltre cento morti ammazzati dalla polizia venerdì scorso e dalle milizie fomentate dal partito nazonale democratico di Mubarak contro la folla pacifica durante la giornata di mercoledì.

La grande differenza tra Tunisi e Il Cairo è invece l'utilizzo di internet, che qui è rimasto bloccato per una settimana, per poi tornare in funzione a partire da ieri. Ormai la pagina più aggiornata è quella di #jan25 su  twitter. Ed è da lì che ho preso la foto con cui ho aperto il pezzo di oggi.

Stasera Alaa, professore di filosofia all'università del Cairo, mi ha chiesto se conosco altri presidenti che hanno ordinato di sparare sulla propria gente. E lo stesso mi ha chiesto Ahmed, che venerdì scorso era in piazza prima della mattanza. E Fouad, che insieme ad altri proteggeva con un cordone umanitario l'equipe di medici volontari che stavano medicando dei feriti portati da una strada vicina, impallinati dai cecchini ancora appostati - si dice - sui tetti dei palazzi limitrofi.

Quando abbiamo lasciato la piazza, alle 23,00 ora locale, sei ore dopo l'inizio del coprifuoco, Tahrir era ancora gremita di gente. Decine di migliaia, in questo straordinario presidio a oltranza. Giardini e marciapiede si sono trasformati in un dormitorio a cielo aperto. In migliaia dormivano nelle aiuole, o semplicemente lungo i marciapiedi, tanto stasera fa caldo. Su due lati della piazza, due impianti stereo amplificano la voce di chi interviene liberamente al microfono, alternati da musica e preghiere. Qua e là si formavano capannelli, anche in mezzo ai carri armati, che ormai fanno parte dell'arredamento, come le statue o i ponti. A gestire la sicurezza non sono loro, ma i ragazzi del movimento. Hanno messo in piedi un servizio d'ordine. Circondano tutti gli accessi della piazza, hanno realizzato delle barricate. E a chiunque passa chiedono la carta d'identità e lo perquisiscono. Gruppi di volontarie perquisiscono le donne. In questo modo si evita che come ieri si infiltrino nella piazza poliziotti in borghese o bande armate di miliziani pronti a seminare il panico e il terrore. La stessa scena di controlli e perquisizione si ripete poi nei quartieri. La sicurezza è completamente affidata alla gente. A parte quella dei giornalisti, che tra ieri e oggi sono stati picchiati per strada o arrestati a decine... Contro di loro si sono scagliati soprattutto gli uomini delle bande armate da Mubarak, gli stessi squadristi che mercoledì hanno forzato la piazza per cercare lo scontro con i manifestanti e seminare il terrore. Gli stessi che ai giornalisti rinfacciano di dare un'immagine sbagliata del paese, dietro i quali c'è però sempre la mano lunga del regime, che vorrebbe spegnere i riflettori sull'intera vicenda.