CAIRO - Si spara di nuovo a piazza Tahrir, ma stavolta i botti non fanno paura, perché sono fuochi d'artificio. Alla fine ha vinto questa straordinaria piazza, che per 18 giorni consecutivi ha saputo mobilitare milioni di egiziani in tutto il paese. Mubarak si dimette, lo annuncia alla tv nazionale il vicepresidente capo dei servizi segreti Omar Suleiman, con uno scarno comunicato di 40 parole. Sono le 17,00 di venerdì 11 febbraio. La notizia è accolta con un boato di gioia e commozione a piazza Tahrir. Io sono appena arrivato, perché sulla via del ritorno da Suez sono stato bloccato per sei ore dai militari, insospettiti dalla presenza di un giornalista straniero da quelle parti.
Il Cairo è in preda a un delirio collettivo. Sembra Roma la notte della finale dei mondiali di calcio nel 2006. Ma stavolta non è per il pallone che milioni di cittadini riempiono le strade. Suonano i clacson delle macchine con la gente affacciata fuori dai finestrini con le bandiere, suonano i clacson delle coppiette in vespa e delle moto cinesi cariche di quattro o cinque persone sul sedile. La piazza straripa, non l'ho mai vista così piena. C'è un mare di gente, almeno un paio di milioni. Uomini, donne, bambini, giovani e meno giovani. Ci sono quelli che dal 25 non hanno mai lasciato piazza Tahrir e quelli che invece sono scesi in strada stasera per la prima volta, piacevolmente delusi del proprio iniziale pessimismo. E ci sono addirittura gli ultras delle tifoserie delle due squadre nemiche del Cairo, Zamalek e Ahli, che per l'occasione hanno messo da parte la storica rivalità, per fare fronte comune contro il regime.
I condomini delle vie laterali di piazza Tahrir lasciano salire in casa i ragazzi che si affacciano ai balconi per i giochi pirotecnici. È una specie di tormentone. Le stesse bombolette spray che fino a ieri servivano a imbrattare di slogan i muri della città oggi vengono usate per spruzzare fuoco in aria. Le fiamme si vedono dappertutto, sopra la testa della gente. E anche le barricate che fino a ieri difendevano l'accesso in piazza dagli attacchi degli squadristi del regime, nel corso della notte vengono trasformate in batterie che accompagnano i cori. A Talaat Harb c'è addirittura un gruppo di cinque ragazzi che armati delle stesse pietre con cui si sono difesi contro gli assalti della polizia il 25 e il 28 gennaio, suonano le percussioni su una lastra d'acciaio della vecchia barricata. E accompagnano i nuovi slogan della festa.
A parte il generico “ma'assalama”, “addio”, il vero tormentone della sera, che rimbalza da un angolo all'altro della piazza, è “Irfa'a raskum anta masri”, ovvero “alza la testa, sei un egiziano”. L'occhio mi cade su un cartello con su scritto in inglese “Finally proud to be egyptian”. La gente si rende conto della straordinaria impresa che ha costituito questa gigantesca, tenace, pacifica e spontanea rivoluzione popolare. Un signore sulla cinquantina, che stringe ancora in mano un manifesto con la foto di un martire, indicando la folla con gli occhi lucidi un po' per la stanchezza un po' per la commozione, mi dice: “Vedi? Abbiamo fatto un'altra piramide”.
Le bandiere dell'Egitto sventolano ovunque. I ragazzi baciano i militari e fanno la fila per farsi fare uno scatto col cellulare sui carri armati e a fianco dei soldati. C'è una fiducia straordinaria, forse anche troppa, verso l'esercito. Ad ogni modo questo non è il tempo dell'analisi, ma della festa. La gioventù balla in piazza fino all'alba. C'è ogni tipo di musica sui quattro palchi di Tahrir. Si va dalla playlist di musica elettronica dei ragazzini ai tamburelli tra le tende, dalla preghiera dell'imam ai classici della canzone egiziana sparati a tutto volume e ballati da ragazzi e ragazze fino al mattino. Sono quei classici che costituiscono la vera colonna sonora della rivoluzione. A differenza della Tunisia, qui non sono ancora usciti tormentoni rap sulle rivolte. Al contrario si canta con nostalgia le canzoni patriottiche dei grandi musicisti del passato e di qualche grande del presente. In ordine sparso: Umm Kulthum, Mohamed Munir, Abdel Halim Hafez, Tamer Hosni, Amru Diab e Shadia con il vero tormentone della serata: Habibti ya Masr, Egitto amore mio.
Mentre si canta e si balla, è praticamente impossibile spostarsi liberamente. È una ressa, e si può solo lasciarsi trasportare dalle ondate di questa fiumana di manifestanti. C'è solo un posto tranquillo. Ed è il memoriale dei martiri. Un tappetino di erba finta, ricoperto di una cinquantina di fotografie incorniciate di altrettanti martiri. Intorno si è formata una catena umana. Un cerchio di ragazzi, si tengono mano nella mano, e proteggono il loro nuovo santuario dalla folla, mentre uno di loro sistema con cura le cornici e il mazzo di fiori che qualcuno ha portato in loro onore.
La stesso cerchio più tardi mi capita di vederlo in altre due occasioni. La prima è un gruppo di ragazzi che mano nella mano proteggono dalla folla lo spazio occupato da un centinaio di persone genuflesse per la preghiera verso Mecca. La seconda è un gruppo di volontari armati di scope e sacchi neri che stanno ripulendo la piazza. Proprio così. I lavori vanno avanti per tutta la notte, con l'obiettivo di restituire alla città una piazza pulita come e forse più di quando l'hanno occupata. Solo allora la gente potrà tornare a casa. La rivoluzione qui è anche questo, l'avere riconquistato gli spazi pubblici della propria città come un bene collettivo. L'essersi riappropriati del destino della propria comunità.
Ma questo è un discorso da fare con più calma, non alle sette del mattino senza aver chiuso occhio! Sì perché sono appena rientrato dalla festa di piazza Tahrir, dove poco fa è stata celebrato il fajr, la preghiera dell'alba, che oggi sembra l'alba di un nuovo Egitto. Anche la luce del sole sembra piú calda, sarà per il contrasto con le pareti annerite dal fumo del vecchio palazzo del partito di Mubarak, dato alle fiamme durante gli scontri con la polizia dei primi giorni della rivoluzione. Ma adesso è tutto finito. Tahia Masr. Viva l'Egitto.
Il Cairo è in preda a un delirio collettivo. Sembra Roma la notte della finale dei mondiali di calcio nel 2006. Ma stavolta non è per il pallone che milioni di cittadini riempiono le strade. Suonano i clacson delle macchine con la gente affacciata fuori dai finestrini con le bandiere, suonano i clacson delle coppiette in vespa e delle moto cinesi cariche di quattro o cinque persone sul sedile. La piazza straripa, non l'ho mai vista così piena. C'è un mare di gente, almeno un paio di milioni. Uomini, donne, bambini, giovani e meno giovani. Ci sono quelli che dal 25 non hanno mai lasciato piazza Tahrir e quelli che invece sono scesi in strada stasera per la prima volta, piacevolmente delusi del proprio iniziale pessimismo. E ci sono addirittura gli ultras delle tifoserie delle due squadre nemiche del Cairo, Zamalek e Ahli, che per l'occasione hanno messo da parte la storica rivalità, per fare fronte comune contro il regime.
I condomini delle vie laterali di piazza Tahrir lasciano salire in casa i ragazzi che si affacciano ai balconi per i giochi pirotecnici. È una specie di tormentone. Le stesse bombolette spray che fino a ieri servivano a imbrattare di slogan i muri della città oggi vengono usate per spruzzare fuoco in aria. Le fiamme si vedono dappertutto, sopra la testa della gente. E anche le barricate che fino a ieri difendevano l'accesso in piazza dagli attacchi degli squadristi del regime, nel corso della notte vengono trasformate in batterie che accompagnano i cori. A Talaat Harb c'è addirittura un gruppo di cinque ragazzi che armati delle stesse pietre con cui si sono difesi contro gli assalti della polizia il 25 e il 28 gennaio, suonano le percussioni su una lastra d'acciaio della vecchia barricata. E accompagnano i nuovi slogan della festa.
A parte il generico “ma'assalama”, “addio”, il vero tormentone della sera, che rimbalza da un angolo all'altro della piazza, è “Irfa'a raskum anta masri”, ovvero “alza la testa, sei un egiziano”. L'occhio mi cade su un cartello con su scritto in inglese “Finally proud to be egyptian”. La gente si rende conto della straordinaria impresa che ha costituito questa gigantesca, tenace, pacifica e spontanea rivoluzione popolare. Un signore sulla cinquantina, che stringe ancora in mano un manifesto con la foto di un martire, indicando la folla con gli occhi lucidi un po' per la stanchezza un po' per la commozione, mi dice: “Vedi? Abbiamo fatto un'altra piramide”.
Le bandiere dell'Egitto sventolano ovunque. I ragazzi baciano i militari e fanno la fila per farsi fare uno scatto col cellulare sui carri armati e a fianco dei soldati. C'è una fiducia straordinaria, forse anche troppa, verso l'esercito. Ad ogni modo questo non è il tempo dell'analisi, ma della festa. La gioventù balla in piazza fino all'alba. C'è ogni tipo di musica sui quattro palchi di Tahrir. Si va dalla playlist di musica elettronica dei ragazzini ai tamburelli tra le tende, dalla preghiera dell'imam ai classici della canzone egiziana sparati a tutto volume e ballati da ragazzi e ragazze fino al mattino. Sono quei classici che costituiscono la vera colonna sonora della rivoluzione. A differenza della Tunisia, qui non sono ancora usciti tormentoni rap sulle rivolte. Al contrario si canta con nostalgia le canzoni patriottiche dei grandi musicisti del passato e di qualche grande del presente. In ordine sparso: Umm Kulthum, Mohamed Munir, Abdel Halim Hafez, Tamer Hosni, Amru Diab e Shadia con il vero tormentone della serata: Habibti ya Masr, Egitto amore mio.
Mentre si canta e si balla, è praticamente impossibile spostarsi liberamente. È una ressa, e si può solo lasciarsi trasportare dalle ondate di questa fiumana di manifestanti. C'è solo un posto tranquillo. Ed è il memoriale dei martiri. Un tappetino di erba finta, ricoperto di una cinquantina di fotografie incorniciate di altrettanti martiri. Intorno si è formata una catena umana. Un cerchio di ragazzi, si tengono mano nella mano, e proteggono il loro nuovo santuario dalla folla, mentre uno di loro sistema con cura le cornici e il mazzo di fiori che qualcuno ha portato in loro onore.
La stesso cerchio più tardi mi capita di vederlo in altre due occasioni. La prima è un gruppo di ragazzi che mano nella mano proteggono dalla folla lo spazio occupato da un centinaio di persone genuflesse per la preghiera verso Mecca. La seconda è un gruppo di volontari armati di scope e sacchi neri che stanno ripulendo la piazza. Proprio così. I lavori vanno avanti per tutta la notte, con l'obiettivo di restituire alla città una piazza pulita come e forse più di quando l'hanno occupata. Solo allora la gente potrà tornare a casa. La rivoluzione qui è anche questo, l'avere riconquistato gli spazi pubblici della propria città come un bene collettivo. L'essersi riappropriati del destino della propria comunità.
Ma questo è un discorso da fare con più calma, non alle sette del mattino senza aver chiuso occhio! Sì perché sono appena rientrato dalla festa di piazza Tahrir, dove poco fa è stata celebrato il fajr, la preghiera dell'alba, che oggi sembra l'alba di un nuovo Egitto. Anche la luce del sole sembra piú calda, sarà per il contrasto con le pareti annerite dal fumo del vecchio palazzo del partito di Mubarak, dato alle fiamme durante gli scontri con la polizia dei primi giorni della rivoluzione. Ma adesso è tutto finito. Tahia Masr. Viva l'Egitto.