TUNISI – Tra i simboli del deposto regime di Ben Ali c'è anche un numero. Il 404. É il codice di errore che veniva visualizzato dai provider tunisini ogni volta che qualcuno tentava di aprire i siti proibiti. Dai siti di controinformazione come Nawaat, Al Badil o Radio Kalima, ai social network come Vimeo, Dailymotion e Youtube. La censura era così frequente che 404 è diventa una parola comune nella lingua parlata dai giovani. Ragazzi come Soufien Belhajj, classe 1982, che contro quel numero hanno speso gli ultimi anni di cyberattivismo. Lui il suo primo account su facebook lo apre all'inizio del 2008. A Tunisi si parla delle rivolte dei minatori a Redeyef, ma tutte le informazioni sono censurate. Gli unici video, registrati da Fahim Boukaddous - che per quelle immagini sarà presto arrestato – dalla rete si scaricano solo da facebook, perché youtube è censurato. Due anni dopo, il suo nome finisce sulla lista nera dei servizi segreti tunisini per il suo attivismo in rete. Ecco la sua storia.
Parte tutto da quei video di Redeyef. Inizio 2008. Soufien è in vacanza in Tunisia, e per scaricarli si crea un account su facebook. Ovviamente con un nome falso. Un alter-ego virtuale gli può evitare un sacco di grane. Dopotutto gli è già successo a Bruxelles, dove ha studiato scienze politiche, che gli agenti del consolato lo abbiano pedinato dopo la sua partecipazione alle conferenze degli esuli della sinistra tunisina. Soufien Belhajj si trasforma così in Hamadi Kaloutcha, un nome popolare e un cognome che ricorda un vecchio bandito di Hammamet. Hamadi Kalouthca è un probabilissimo trentenne diplomato e disoccupato, che tramite la sua pagina rilancia in rete le notizie censurate a cui accede con qualche trucco che gli permette di connettersi con proxy non censurati, e alimenta dibattiti sulla corruzione del regime e sulla possibilità di un'alternativa.
I video delle rivolte di Redeyef stanno tutti su un gruppo che conta un migliaio di aderenti. Nel 2008 sembra una cifra astronomica. Ma ancora non sono niente in confronto a quello che sarebbe successo tre anni dopo. E infatti la rivolta viene repressa nel sangue senza che nessuno mouva in dito nel resto del paese. Redeyef finisce nel dimenticatoio. O almeno così sembra, perché nel frattempo, nei due anni successivi, sulla rete succede qualcosa di straordinario. E il percorso di Soufien ne è la prova.
Nonostante più di un sabotaggio ad opera degli hacker dei servizi segreti, in due anni il suo profilo raggiunge quasi cinquemila amici, tramite i quali, a cascata, le sue notizie arrivano a decine di migliaia di persone in un paese sotto la più oscura censura. Tramite facebook rinasce l'agorà. Una piazza dove incontrarsi e dibattere, in un paese dove la dittatura ha tagliato tutte le relazioni tra i dissidenti e ha azzerato le possibilità di organizzarsi e riunirsi. Una piazza dove non ci sono leader, ma soltanto pagine di riferimento, come quella di Hamadi Kaloutcha, che funzionano da punto di snodo per le informazioni prodotte direttamente dagli iscritti a facebook. Video e fotografie fatte col cellulare e diffuse in rete raggiungono in un attimo migliaia di persone in tutto il paese. Esattamente lo stesso che succede quando iniziano le rivolte nel sud del paese.
È tutto un crescendo. Dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, ogni giorno i ragazzi postano sul proprio profilo le immagini delle proprie città. Per un mese, quelle immagini sono l'unica fonte di informazione, e di incoraggiamento. Soprattutto dopo le tre giornate di sangue a Qasserine, quando in tre giorni, dall'8 al 10 gennaio, i cecchini delle milizie di Ben Ali, appostati sui tetti dei palazzi, abbattono una cinquantina di ragazzi innocenti. A fare da detonatore - secondo Soufien - sono soprattutto le immagini dell'obitorio di Qasserine. Quelle del ragazzo con la testa aperta da un proiettile sparato alla nuca. Su internet in quei giorni la parola d'ordine è bloccare la polizia in tutte le città per evitare che inviino rinforzi a Qasserine per finire il massacro. Lui se lo ricorda bene, perché il 10 gennaio è stato appena rimesso in libertà.
Lo sono andati a prendere quattro giorni prima, il 6 gennaio. Quando sente suonare alla porta, fuori fa ancora buio. Sono le sei del mattino. Si affaccia alla finestra. Un signore gli chiede se è lui Soufien, e di scendere. Non c'è bisogno di essere un genio per capire che non è lui che cercano ma Hamadi Kaloutcha. Nasconde in fretta i due portatili sotto il materasso, tranquillizza la moglie e scende ad aprire la porta. Fa appena in tempo a affacciarsi che gli piegano il braccio dietro la schiena e lo ammanettano. Pochi minuti dopo è nei sotterranei del ministero dell'interno. Si immagina nudo in tutte le posizioni delle torture di cui spesso ha letto nei rapporti online. E ha paura. Decide di collaborare da subito, anche perché non ha niente da nascondere, in fondo non ha mai conosciuto di persona le migliaia di persone che partecipano alla sua pagina, non c'è nessuna organizzazione segreta dietro, ma soltanto una comunità virtuale.
Resta ammanettato alla stessa sedia per tre giorni, in un lungo dormiveglia tra un interrogatorio e l'altro. E quando alla fine gli dicono che può andarsene, si accorge che ancora nessuno gli ha messo le mani addosso, a parte uno schiaffone, uno, di numero. Probabilmente, pensa, hanno avuto paura delle migliaia di solidali che si sono espressi in rete a suo favore e a favore degli altre tre finiti in manette: Slim Amamou e Aziz Amami, che con migliaia di altri hacker del gruppo Anonymous hanno attaccato i siti internet del governo, e il rapper El Général, che ha postato in rete due canzoni che incitavano alla rivolta contro Ben Ali.
Adesso che il regime è caduto, il 404 fa parte dei ricordi, compare solo all'indirizzo di qualche sito pornografico. La rete in Tunisia oggi è libera. E i cyberdissidenti di ieri possono brindare. La ragione era dalla loro parte. E il loro esempio è stato ripreso in Egitto dai ragazzi in rivolta in questi giorni. Soufien dopo la sua intervista andata in onda su Aljazeera ha ricevuto decine di messaggi dal Cairo. Chiedevano consigli su come organizzarsi. Ma è stato inutile. Perché non solo i soli ad aver studiato la rivoluzione tunisina. L'ha fatto anche Mubarak, e per prevenire un reply ha spento la rete.
Parte tutto da quei video di Redeyef. Inizio 2008. Soufien è in vacanza in Tunisia, e per scaricarli si crea un account su facebook. Ovviamente con un nome falso. Un alter-ego virtuale gli può evitare un sacco di grane. Dopotutto gli è già successo a Bruxelles, dove ha studiato scienze politiche, che gli agenti del consolato lo abbiano pedinato dopo la sua partecipazione alle conferenze degli esuli della sinistra tunisina. Soufien Belhajj si trasforma così in Hamadi Kaloutcha, un nome popolare e un cognome che ricorda un vecchio bandito di Hammamet. Hamadi Kalouthca è un probabilissimo trentenne diplomato e disoccupato, che tramite la sua pagina rilancia in rete le notizie censurate a cui accede con qualche trucco che gli permette di connettersi con proxy non censurati, e alimenta dibattiti sulla corruzione del regime e sulla possibilità di un'alternativa.
I video delle rivolte di Redeyef stanno tutti su un gruppo che conta un migliaio di aderenti. Nel 2008 sembra una cifra astronomica. Ma ancora non sono niente in confronto a quello che sarebbe successo tre anni dopo. E infatti la rivolta viene repressa nel sangue senza che nessuno mouva in dito nel resto del paese. Redeyef finisce nel dimenticatoio. O almeno così sembra, perché nel frattempo, nei due anni successivi, sulla rete succede qualcosa di straordinario. E il percorso di Soufien ne è la prova.
Nonostante più di un sabotaggio ad opera degli hacker dei servizi segreti, in due anni il suo profilo raggiunge quasi cinquemila amici, tramite i quali, a cascata, le sue notizie arrivano a decine di migliaia di persone in un paese sotto la più oscura censura. Tramite facebook rinasce l'agorà. Una piazza dove incontrarsi e dibattere, in un paese dove la dittatura ha tagliato tutte le relazioni tra i dissidenti e ha azzerato le possibilità di organizzarsi e riunirsi. Una piazza dove non ci sono leader, ma soltanto pagine di riferimento, come quella di Hamadi Kaloutcha, che funzionano da punto di snodo per le informazioni prodotte direttamente dagli iscritti a facebook. Video e fotografie fatte col cellulare e diffuse in rete raggiungono in un attimo migliaia di persone in tutto il paese. Esattamente lo stesso che succede quando iniziano le rivolte nel sud del paese.
È tutto un crescendo. Dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, ogni giorno i ragazzi postano sul proprio profilo le immagini delle proprie città. Per un mese, quelle immagini sono l'unica fonte di informazione, e di incoraggiamento. Soprattutto dopo le tre giornate di sangue a Qasserine, quando in tre giorni, dall'8 al 10 gennaio, i cecchini delle milizie di Ben Ali, appostati sui tetti dei palazzi, abbattono una cinquantina di ragazzi innocenti. A fare da detonatore - secondo Soufien - sono soprattutto le immagini dell'obitorio di Qasserine. Quelle del ragazzo con la testa aperta da un proiettile sparato alla nuca. Su internet in quei giorni la parola d'ordine è bloccare la polizia in tutte le città per evitare che inviino rinforzi a Qasserine per finire il massacro. Lui se lo ricorda bene, perché il 10 gennaio è stato appena rimesso in libertà.
Lo sono andati a prendere quattro giorni prima, il 6 gennaio. Quando sente suonare alla porta, fuori fa ancora buio. Sono le sei del mattino. Si affaccia alla finestra. Un signore gli chiede se è lui Soufien, e di scendere. Non c'è bisogno di essere un genio per capire che non è lui che cercano ma Hamadi Kaloutcha. Nasconde in fretta i due portatili sotto il materasso, tranquillizza la moglie e scende ad aprire la porta. Fa appena in tempo a affacciarsi che gli piegano il braccio dietro la schiena e lo ammanettano. Pochi minuti dopo è nei sotterranei del ministero dell'interno. Si immagina nudo in tutte le posizioni delle torture di cui spesso ha letto nei rapporti online. E ha paura. Decide di collaborare da subito, anche perché non ha niente da nascondere, in fondo non ha mai conosciuto di persona le migliaia di persone che partecipano alla sua pagina, non c'è nessuna organizzazione segreta dietro, ma soltanto una comunità virtuale.
Resta ammanettato alla stessa sedia per tre giorni, in un lungo dormiveglia tra un interrogatorio e l'altro. E quando alla fine gli dicono che può andarsene, si accorge che ancora nessuno gli ha messo le mani addosso, a parte uno schiaffone, uno, di numero. Probabilmente, pensa, hanno avuto paura delle migliaia di solidali che si sono espressi in rete a suo favore e a favore degli altre tre finiti in manette: Slim Amamou e Aziz Amami, che con migliaia di altri hacker del gruppo Anonymous hanno attaccato i siti internet del governo, e il rapper El Général, che ha postato in rete due canzoni che incitavano alla rivolta contro Ben Ali.
Adesso che il regime è caduto, il 404 fa parte dei ricordi, compare solo all'indirizzo di qualche sito pornografico. La rete in Tunisia oggi è libera. E i cyberdissidenti di ieri possono brindare. La ragione era dalla loro parte. E il loro esempio è stato ripreso in Egitto dai ragazzi in rivolta in questi giorni. Soufien dopo la sua intervista andata in onda su Aljazeera ha ricevuto decine di messaggi dal Cairo. Chiedevano consigli su come organizzarsi. Ma è stato inutile. Perché non solo i soli ad aver studiato la rivoluzione tunisina. L'ha fatto anche Mubarak, e per prevenire un reply ha spento la rete.