di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
PALERMO - Il Tribunale di Agrigento nell’udienza del 7 ottobre ha pronunciato una sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Elias Bierdel , del comandante Schmidt e del suo secondo, imputati di agevolazione dell’ingresso di clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 naufraghi alla deriva cento miglia a sud di Lampedusa. È stato anche disposto il dissequestro del deposito cauzionale che era stato versato dopo il sequestro della nave, restituita al comitato Cap Anamur e poi venduta. Chi effettua salvataggio a mare non commette nessun reato ed il comandante è l’unica persona che può individuare il luogo sicuro, anche da un punto di vista giuridico, per lo sbarco. Il messaggio chiaro della sentenza è che gli Stati devono rispettare il diritto internazionale del mare, che vieta anche i respingimenti collettivi, ed il divieto di refoulement affermato dalla Convenzione di Ginevra.
Dopo anni di indagini, e dopo la audizione di numerosi testimoni, tutte le accuse formulate dalla Procura di Agrigento sono risultate destituite di ogni fondamento. È caduta la iniziale ipotesi accusatoria della forzatura del blocco navale che era stato imposto alla Cap Anamur,tenuta per due settimane al largo delle coste siciliane per decisione del governo italiano, ed è emersa la situazione di stato di urgenza e necessità, determinata a bordo della nave da una così lunga permanenza dei naufraghi, ai quali venivano impediti lo sbarco e la possibilità di fare valere la loro richiesta di asilo o di protezione umanitaria. È apparsa inoltre evidente la pretestuosità della ricostruzione dei fatti che - per contestare le aggravanti derivanti dalla ipotesi associativa- è giunta a coinvolgere anche il “secondo di bordo”, soggetto del tutto privo di autonoma capacità decisionale sulla condotta della nave, rimessa esclusivamente ai poteri del comandante. In questa prospettiva appare ancora più ingiustificata la carcerazione preventiva imposta agli imputati nei primi giorni dopo lo sbarco.
Il periodo di tempo trascorso tra la azione di salvataggio e la richiesta di attracco della Cap Anamur a Porto Empedocle, non era certo imputabile ad una scelta nell’interesse personale dei responsabili della cap Anamur, o alla ricerca di un profitto ( il cd. dolo di profitto). In quello stesso periodo vi erano stati contatti tra i governi italiano, tedesco, maltese e la nave, i cui responsabili cercavano di fare sbarcare i naufraghi in un “place of safety” nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali a salvaguardia della vita umana a mare e del diritto di asilo. I ritardi ed il clamore derivante da questa vicenda sulla stampa di tutto il mondo derivava esclusivamente dalle scelte di sbarramento dei governi coinvolti. Scelte sulle quali si è costruita in questi anni la Fortezza Europa, senza arrestare significativamente l’immigrazione clandestina, ma producendo un numero incalcolabile di morti e di dispersi.
Una importante affermazione della giurisdizione, la sentenza del Tribunale di Agrigento, ed un chiarimento di circostanze che nei rapporti di polizia, talora contraddittori, anche alla luce delle successive deposizioni rese in aula, tendevano ad addossare ai responsabili della Cap Anamur sia i ritardi nelle comunicazioni che lo stato di emergenza che si viveva a bordo della nave dopo che i ministri dell’interno di Germania e Italia non erano riusciti a trovare una intesa sulla richiesta di ingresso e di asilo presentata dai naufraghi.
La vicenda processuale, con il concorso di tutte le parti, ha permesso di accertare come i dinieghi frapposti per settimane all’ingresso della Cap Anamur nelle acque territoriali fossero destituiti di qualsiasi fondamento giuridico, derivando da “scelte politiche” dell’allora ministro dell’interno Pisanu, “scelte politiche” che poi si sono tradotte nel ritiro “in autotutela” dei permessi di protezione umanitaria concessi a 21 dei rifugiati dopo lo sbarco in Sicilia, ed ancora nella espulsione sommaria di tutti i naufraghi, meno due, malgrado le decisioni di sospensiva provenienti da giudici diversi.
La sentenza di Agrigento costituisce una importante affermazione dello stato di diritto di fronte al tentativo delle autorità amministrative italiane di configurare “a posteriori” una fattispecie di responsabilità penale, in violazione del principio di legalità e della responsabilità personale sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale. Un tentativo che si sta dispiegando ancora oggi con la prassi dei respingimenti collettivi, che violano il diritto interno e le convenzioni internazionali, e con la introduzione del reato di immigrazione clandestina, una fattispecie che nella sua concreta attuazione viola il principio di parità di trattamento ed è rimessa sostanzialmente alla discrezionalità delle autorità di polizia.
In questo momento, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, e l’eventuale ricorso della Procura della Repubblica, ci si può solo augurare che i prossimi interventi di salvataggio non siano soggetti a sanzione penale, e che questo incoraggi i mezzi civili ad interventi più tempestivi, senza lasciare naufraghi a mare, a morire di inedia per settimane, come è successo ancora poche settimane fa.
In questa direzione rimane pure da attendere tra poche settimane la prossima sentenza del Tribunale di Agrigento nel processo a carico dei sette pescatori tunisini che nel 2007 salvarono altri naufraghi alla deriva nel Canale di Sicilia. Una sentenza altrettanto importante di quella pronunciata oggi, che avrà sicuramente ripercussioni sul comportamento dei pescherecci operanti nel canale di Sicilia.
Infine il pensiero va a quel migrante salvato dalla Cap Anamur e poi espulso dal governo italiano, perito nell’estate del 2006, insieme ad altri migranti naufragati nel Canale di Sicilia. Una vita che, se non ci fosse stato il divieto di ingresso violento ed immotivato frapposto alla Cap Anamur dal governo italiano nel 2004, e poi una espulsione sommaria, forse non sarebbe stata spezzata in questo modo. La politica dei respingimenti collettivi, ed anche nella vicenda della Cap Anamur si verificarono fasi di respingimento collettivo, continua a produrre vittime ed è urgente che presto la Corte Europea dei diritti dell’Uomo e la Commissione Europea si pronuncino sulle denunce che sono state presentate contro l’Italia.
Le associazioni ed i movimenti, che sono stati accanto ai componenti della Cap Anamur, seguiranno tutte le fasi dei prossimi processi nei confronti di autori di azioni di salvataggio imputati per il reato di agevolazione dell’ingresso di clandestini, processi dai quali non potranno che emergere le gravissime responsabilità, anche a livello politico ed istituzionale, nella gestione del controllo delle frontiere e delle espulsioni nel Canale di Sicilia da parte del governo italiane e delle unità navali impegnate nelle operazioni FRONTEX.
di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo