ROMA – È partito senza bagagli. La polizia lo ha svegliato alle sei del mattino e gli ha comunicato che oggi sarebbe stato rimpatriato. Non ha avuto nemmeno il tempo di farsi una doccia. Dopo diciannove anni in Italia, impiegato come domestico presso le più facoltose famiglie romane, l’unico ricordo che Miguel porta con sé di questo paese è una pila. La porta nello stomaco. L’aveva ingoiata insieme a della candeggina un mese fa, quando gli comunicarono che sarebbe rimasto al centro di identificazione e espulsione (Cie) di Roma per sei mesi anziché due. L’avevo conosciuto durante la mia visita al Cie di Ponte Galeria mercoledì scorso. Era una delle anime dello sciopero della fame della sezione maschile, giunto oggi al terzo giorno. Questa è la sua storia.
Qualcuno di voi si ricorda la sanatoria Dini? Era il 1995 e circa 250.000 immigrati ottennero un permesso di soggiorno, dimostrando che possedevano un lavoro. Miguel era uno di loro. Quando lasciò il Perù nel 1990 sognava di mettere da parte abbastanza soldi, al massimo in un paio d’anni, e di tornare in America Latina per iscriversi alla facoltà di sociologia. Da allora però non ha più lasciato l’Italia. E si è ritrovato dietro le sbarre del Cie di Ponte Galeria, dopo 20 anni di lavoro come domestico e giardiniere presso facoltose famiglie della Roma bene. Prima sei anni nella villa di Anna Fendi, poi la famiglia Cavalli, due anni presso il generale dei carabinieri Paolo Bruno di Noia e infine il servizio all’ambasciata del Libano presso la Santa Sede. Il permesso di soggiorno? Lo perse nel 2003. In quel periodo era impiegato in nero, e senza un contratto di lavoro non poté rinnovare il suo documento. “Probabilmente io mi sono illuso tanto con l’ideale dell’Unione europea – mi aveva detto sconsolato -. Si dice che l’Unione europea al centro di sé ha l’uomo, che la dignità dell’uomo sia inviolabile, che i suoi diritti siano inalienabili: questa veramente mi sembra una utopia. Mi crea una tristezza, mi crea una grande tristezza… che menzogna, veramente!”.
A Ponte Galeria era stato portato il 20 giugno 2009. A fine agosto si aspettava di tornare in libertà, alla scadenza dei due mesi di trattenimento. Quando gli comunicarono che avrebbe dovuto fare altri quattro mesi, non riuscì a farsene una ragione. Bevette della candeggina e ingoiò due pile. Sperando con quel gesto di accendere i riflettori sulla sua storia, sui suoi sogni infranti e sulle contraddizioni di un’Italia che “si è spogliata della sua onestà per vestirsi col potere”. Dopo otto giorni all’ospedale Grassi di Ostia, Miguel è stato riportato al centro di identificazione e espulsione. Con ancora una pila nello stomaco. Di notte soffriva di gastrite. Ma in base alla legge non soffriva abbastanza per ottenere un rilascio per motivi di salute. Mercoledì scorso, prima di salutarmi, mi ha citato Carlo Azeglio Ciampi, confessandomi di essere un suo grande ammiratore: “Non c’è democrazia senza pluralismo”. E poi ha concluso con un tono amareggiato: “È come con i bambini. Gli si racconta la favola di un mostro che non esiste, per poterli manipolare con la paura. Lo stesso sta succedendo in questo paese. Hanno ammazzato i giudici Falcone e Borsellino, ma continuate ad avere paura degli immigrati”.