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La sera del 9 agosto, 300 detenuti, in maggioranza somali, assaltano il cancello del campo di detenzione, forzando il cordone di polizia, e iniziano a scavalcare. I militari intervengono armati di manganelli e di coltelli. Affrontano i rivoltosi menando alla cieca. Lo scontro è durissimo. Alla fine giacciono a terra in una pozza di sangue 6 morti accoltellati (e non uccisi sotto gli spari, come sembrava in un primo momento) e più di 50 feriti. Un centinaio di somali sono comunque riusciti a fuggire e si sono dati alla fuga in direzione di Tripoli, braccati dalla polizia. Il giorno dopo però mancano all’appello 10 delle persone ferite. Nessuno sa se siano ricoverati in ospedale o se siano finiti all’obitorio. Il numero delle vittime oscilla quindi tra 6 e 16. Gli altri accoltellati invece sono ancora in cella. Le ferite sono ancora sanguinanti, Hanno tagli alle gambe, sulle braccia, sulla testa. Alcuni hanno febbre e un principio di infezione, e non si può escludere il rischio di complicazioni. Ma nessun medico fino ad oggi li ha visitati. Né li hanno visitati l’Alto commissariato dei rifugiati delle Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. A loro ci appelliamo affinché insistano presso il governo libico per ottenere l’autorizzazione a visitare il campo e a verificare l’accaduto. Tutto questo non può restare impunito. L'Italia e la Libia devono essere processate davanti al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite.