BENGHAZI – C’è un testimone oculare del massacro di Benghazi. Ha assistito personalmente alla strage dei somali nel campo di detenzione di Ganfuda. E l’ha raccontata per telefono a Fortress Europe, sotto stretto anonimato. Ecco come li hanno ammazzati.
Il campo di Ganfuda si trova a una decina di chilometri dalla città di Benghazi. Vi sono detenute circa 500 persone, in maggior parte somali, e poi un gruppo di eritrei, e alcuni nigeriani e maliani. Sono tutti stati arrestati nella regione di Ijdabiyah e Benghazi, durante le retate in città oppure durante la traversata del deserto dal sud. Molti sono dietro le sbarre da oltre sei mesi. C’è chi è dentro da un anno. Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice. Ci sono persone ammalate di scabbia, dermatiti e malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Le condizioni di detenzione sono pessime. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua, e quotidianamente sottoposte a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia. La tensione è tale che il gruppo dei detenuti somali decide di tentare l’evasione.
La sera del 9 agosto, 300 detenuti, in maggioranza somali, assaltano il cancello del campo di detenzione, forzando il cordone di polizia, e iniziano a scavalcare. I militari intervengono armati di manganelli e di coltelli. Affrontano i rivoltosi menando alla cieca. Lo scontro è durissimo. Alla fine giacciono a terra in una pozza di sangue 6 morti accoltellati (e non uccisi sotto gli spari, come sembrava in un primo momento) e più di 50 feriti. Un centinaio di somali sono comunque riusciti a fuggire e si sono dati alla fuga in direzione di Tripoli, braccati dalla polizia. Il giorno dopo però mancano all’appello 10 delle persone ferite. Nessuno sa se siano ricoverati in ospedale o se siano finiti all’obitorio. Il numero delle vittime oscilla quindi tra 6 e 16. Gli altri accoltellati invece sono ancora in cella. Le ferite sono ancora sanguinanti, Hanno tagli alle gambe, sulle braccia, sulla testa. Alcuni hanno febbre e un principio di infezione, e non si può escludere il rischio di complicazioni. Ma nessun medico fino ad oggi li ha visitati. Né li hanno visitati l’Alto commissariato dei rifugiati delle Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. A loro ci appelliamo affinché insistano presso il governo libico per ottenere l’autorizzazione a visitare il campo e a verificare l’accaduto. Tutto questo non può restare impunito. L'Italia e la Libia devono essere processate davanti al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite.