di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
PALERMO, 17 agosto 2009 - Dopo giorni di notizie frammentarie provenienti da alcuni siti somali, e dopo la smentita ufficiale del governo libico, sembra confermata da fonti indipendenti la uccisione di un numero imprecisato di migranti somali detenuti nel carcere di Bengasi, alcuni, forse cinque, durante un tentativo di fuga, altri, sembrerebbe quindici, che nella fase successiva alla fuga sarebbero stati percossi a morte. Nelle proteste scaturite dalla repressione violenta del tentativo di fuga, culminato con la strage, altre decine di somali (sembrerebbe 50) detenuti all’interno della stessa struttura detentiva di Bengasi, sarebbero stati gravemente feriti con manganelli elettrici, bastoni e coltelli, utilizzati da parte della polizia libica che si scagliava contro tutti coloro che si riteneva avessero partecipato alla sommossa. Una vicenda tragica sulla quale occorre indagare.
Nessun mezzo di informazione italiano ha riportato notizie su quanto avvenuto a Bengasi, come nessun mezzo di informazione dà più notizia degli sbarchi a Lampedusa o dei respingimenti collettivi verso la Libia praticati in acque internazionali da unità militari italiane. Una censura imposta ( quando non si tratti di autocensura) per coprire le violazioni dei doveri di protezione incombenti agli stati. E sempre più spesso tra i migranti riconsegnati dalle autorità italiane alla polizia libica si trovano somali, anche donne e minori non accompagnati che, in base alle Convenzioni internazionali, le autorità italiane avrebbero il dovere di accogliere. Quanto è successo a Bengasi lega direttamente Italia e Libia nelle responsabilità per gli abusi commessi ai danni di migranti dopo i recenti accordi di collaborazione. Dopo gli accordi con l’Italia risulta da fonti diverse che la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione libici sta diventando giorno dopo giorno sempre più drammatica.
I migranti somali uccisi a Bengasi erano probabilmente detenuti da mesi ma potrebbero anche essere gli stessi somali consegnati in queste settimane dalle autorità italiane alle forze di polizia libiche impegnate nel pattugliamento congiunto nel canale di Sicilia. In ogni caso, come tutti i somali in fuga da un paese dilaniato dalla guerra civile e senza una autorità statale centrale, avrebbero comunque diritto al riconoscimento di una forma di protezione internazionale. Non si tratta certamente di “questioni interne” sulle quali la Libia è libera di decidere come crede. La Commissione Europea, così propensa ad avvalersi della Libia nelle pratiche di contrasto dell’immigrazione irregolare, dovrebbe nominare al più presto una Commissione di inchiesta al fine di verificare il rispetto dei diritti umani in quel paese, precondizione per la stipula di qualunque accordo tra l’Unione Europea ed i paesi terzi.
L’Italia dovrebbe inviare al più presto una propria commissione parlamentare, così come stabilito in un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Parlamento nel febbraio del 2009, in occasione della ratifica del Trattato di amicizia italo-libico. Ma si può dubitare che Berlusconi, in occasione della prossima visita a Tripoli per il primo anniversario della firma del Trattato di amicizia voglia ( o possa) aprire la questione del rispetto dei diritti umani dei migranti in quel paese. Diritti umani dei migranti che anche in Italia, dopo l’approvazione degli ultimi provvedimenti sulla sicurezza, sono sempre più sottomessi alla discrezionalità delle forze di polizia.
Il governo italiano, come altri governi europei, è sempre più convinto che “esternalizzando” le pratiche dei controlli di frontiera e ricorrendo a prassi informali, senza alcuna documentazione delle attività di respingimento sommario e collettivo poste in essere, qualunque abuso commesso ai danni dei migranti potrà restare impunito. La Libia, del resto, non fa parte del Consiglio d’Europa o della Unione Europea, e dunque le regole comunitarie o la giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’uomo non sono applicabili nei confronti di quello stato, a meno che le stesse unità militari europee non abbiano fatto ingresso nel territorio libico per riconsegnare migranti soccorsi in acque internazionali ( come avvenuto peraltro il 7 e 8 maggio di quest’anno. quando la Marina Militare italiana ha sbarcato sul molo del porto di Tripoli decine di migranti, inclusi donne e minori ).
Una volta respinti in Libia, o quando sono stati rastrellati in quel paese, a seguito degli accordi conclusi con l’Italia nel dicembre del 2007 ( Protocolli operativi) e dell’agosto 2008 (Trattato di amicizia italo-libico), per i migranti rinchiusi nelle carceri e nei centri di detenzione libici sembra non esserci più scampo, soprattutto se provengono dall’africa sub-sahariana, come dalla Somalia o dall’Eritrea, o se sono di fede cristiana. Per loro mesi, talvolta anche anni di detenzione senza alcun controllo giudiziario,violenze ed abusi di ogni genere, con la prospettiva, talvolta il miraggio altre volte la minaccia, di un rimpatrio che in molti casi non avverrà mai. Per gli altri, per i migranti maghrebini senza documenti, le condizioni carcerarie sono meno dure ed esiste sempre la possibilità di corrompere un poliziotto e di restare irregolarmente in Libia, quando non vengano rimpatriati con i finanziamenti ricevuti dall’Europa, e dall’Italia, come avviene da anni, verso l’Egitto, l’Algeria o il Marocco ( per queste pratiche si rinvia alla Relazione della Missione tecnica del Consiglio d’Europa nel dicembre del 2004).
Tuttavia, anche se i governanti di Libia ed Italia si sentono al sicuro, coperti da una opinione pubblica disinformata e sempre più xenofoba, certi che le loro malefatte non verranno mai scoperte o sanzionate dagli organismi della giustizia internazionale, entrambi questi paesi hanno aderito a varie Convenzioni internazionali sui diritti umani e tra queste, oltre al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,al quale la Libia ha aderito dal 1970, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, e potrebbero essere dunque sanzionati dal Comitato per i diritti dell’Uomo e dal Comitato per la prevenzione della tortura (CAT) delle Nazioni Unite per le violazioni del Patto e di questa Convenzione. Da testimonianze raccolte da fonti diverse ( per tutti, confronta Human Rights Watch ed Amnesty International) si ricava infatti che nelle carceri libiche la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti, come gli abusi ai danni di minori e giovani donne, sono eventi diffusi e generalizzati, soprattutto con riferimento ai migranti di fede religiosa cristiana o provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana.
Si può dunque ritenere che la pratica dei “trattamenti inumani o degradanti”, che può assimilarsi alla tortura, nei confronti dei migranti rinchiusi nelle carceri o nei centri di detenzione libici, e che nei casi più gravi, come a Bengasi, è giunta fino alla uccisione dei detenuti, sia un fatto quotidiano, malgrado da anni siano avviate attività di collaborazione e di formazione congiunta tra la polizia libica e quella italiana, presente in quel paese con missioni tecniche e ufficiali di collegamento. Per questa ragione sia l’Italia ( che respinge in Libia i migranti bloccati nel Canale di Sicilia), che la stessa Libia, ( che li respinge nei paesi di provenienza o li detiene in condizioni inumane), andrebbero deferite davanti agli organi delle Nazioni Unite che vigilano sull’applicazione delle Convenzioni a difesa dei diritti dell’uomo, tra queste una delle più importanti, la Convenzione contro la tortura.
Adottata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987 (1), la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli inumani e degradanti” è il primo strumento internazionale a contenere una definizione della fattispecie(2), con una formulazione ampia e priva di riferimenti a comportamenti specifici.
Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, “il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”.
L’articolo 3 della Convenzione ribadisce il principio di non refoulement, quindi la natura assoluta del diritto di ogni persona a non essere espulso verso un paese dove può incorrere nella tortura o in maltrattamento.
La Convenzione dispone di un organo di natura non giurisdizionale – il Comitato contro la tortura (di seguito CAT, Comitato o ComCT) – intorno al quale ruotano meccanismi di controllo contemplanti la presentazione di una relazione periodica sulle misure adottate per dare esecuzione agli obblighi pattizi, in seguito al ricevimento della quale il Comitato può indirizzare allo Stato le proprie ‘osservazioni’ (art. 19), o la predisposizione di un’inchiesta qualora vi siano prove attendibili che la tortura venga sistematicamente perpetrata nel territorio di uno Stato contraente (art. 20)(3);
Come altri organi internazionali giurisdizionale o quasi-giurisdizionali, quali la Corte di Strasburgo e il Comitato dei diritti umani, anche il CAT può invitare lo Stato convenuto ad adottare misure provvisorie (4) al fine di mantenere inalterato lo status quo del ricorrente e tutelarlo da danni irreparabili (5) quali quelli che potrebbe subire se deportato in un Paese nel quale verrebbe sottoposto a trattamenti proibiti. La richiesta può essere presentata in qualsiasi momento, anche preliminarmente all’esame di ricevibilità, non solo dal Comitato Contro la Tortura, ma anche da parte di un “gruppo di lavoro” o del Relatore speciale (6), al fine di garantire tempestività ed efficacia del procedimento cautelare quando il Comitato non è in sessione. Questa misura può essere adottata solo dopo la presentazione di un ricorso o di più ricorsi individuali, e non sembra che in questo momento sia possibile presentare questi ricorsi dalle carceri libiche, viste anche le difficoltà incontrate nella presentazione di un ricorso individuale alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, da parte degli avvocati dei richiedenti asilo respinti a maggio dall’Italia in Libia e tuttora detenuti a Tripoli.
I “ricorsi individuali” al CAT possono essere esaminati solo se lo Stato accetta l’indagine del Comitato. In diversi casi ricorsi individuali presentati al Comitato contro la Tortura sono stati respinti perché i ricorrenti non erano riusciti a fornire le prove necessarie. La via dei ricorsi individuali è dunque assolutamente impervia e potrebbe anche esporre i ricorrenti a gravissime ritorsioni da parte di quegli stessi paesi nei quali si trovano ( e verso i quali fanno ricorso). Non è del resto prevedibile che la Libia, al pari dell’Italia per le deportazioni verso quel paese, accetti di sottoporsi ad una indagine del Comitato sulla base di un ricorso individuale. E’ tuttavia possibile che, a fronte di una serie documentata di abusi che concretizzino violazioni della Convenzione contro la tortura, sia lo stesso Comitato che nomini un relatore speciale che svolga una indagine approfondita sui casi denunciati o sulla situazione generale circa il rispetto della Convenzione in un determinato paese, e proponga, se ne rinvenga gli estremi, l’apertura di un procedimento che porti alla condanna degli stati responsabili delle violazioni della Convenzione contro la tortura.
Per questa ragione chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali umanitarie, ed alle associazioni di migranti, di rivolgere al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite atti e materiali di denuncia per le violenze e gli abusi commessi ai danni dei migranti non solo nel carcere di Bengasi, dove sarebbero avvenuti gli ultimi più tragici eventi, ma in tutta la Libia, come nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, per sollecitare l’apertura di indagini da parte del Comitato contro la tortura, per giungere finalmente ad un accertamento ufficiale, se non ad un sanzione, delle violazioni del diritto internazionale da parte di questo paese, e di tutti quei paesi che vi collaborano nella cd. “guerra all’immigrazione illegale”, una “guerra” che non potrà mai avere vincitori, ma che vedrà soltanto aumentare sempre più il numero delle vittime. Una “guerra” contro i migranti in fuga, e non contro le organizzazioni criminali che li sfruttano, una “guerra” in futuro potrebbe avere effetti destabilizzanti sia per i paesi di transito che per i paesi di destinazione.
- (1) La Convenzione è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite senza voto, a dimostrazione dell’ampio consenso raggiunto dagli Stati intorno alla materia trattata. Alla data del 2 ottobre 2007 erano 145 gli Stati contraenti e 74 quelli firmatari. L’Italia l’ha ratificata con L. n. 498 del 3 novembre 1988 (G.U. 18/11/1988 n. 271) ed è entrata in vigore sul piano interno l’11 febbraio 1989
- (2) Il divieto di tortura è enunciato dai principali strumenti internazionali per la tutela dei diritti dell’uomo: art. 5 della DIDU; art. 7 del Patto sui diritti civili e politici; art. 37 della Convenzione sui diritti del fanciullo; art. 5 della Convenzione contro la schiavitù; art. 3 della CEDU; art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra
- (3) I risultati dell’inchiesta possono essere resi noti attraverso un “conciso resoconto” nella relazione annuale predisposta dal Comitato ai sensi dell’art. 24, sempre che lo Stato parte interessato sia d’accordo
- (4) Art. 108 del Regolamento di procedura: “1.At any time after the receipt of a complaint, the Committee, a working group, or the Rapporteur(s) for new complaints and interim measures may transmit to the State party concerned, for its urgent consideration, a request that it take such interim measures as the Committee considers necessary to avoid irreparable damage to the victim or victims of alleged violations. 2. Where the Committee, the Working Group, or Rapporteur(s) request(s) interim measures under this rule, the request shall not imply a determination of the admissibility or the merits of the complaint. The State party shall be so informed upon transmittal. 3. Where a request for interim measures is made by the Working Group or Rapporteur(s) under the present rule, the Working Group or Rapporteur(s) should inform the Committee members of the nature of the request and the complaint to which the request relates at the next regular session of the Committee. 4. The Secretary-General shall maintain a list of such requests for interim measures. 5. The Rapporteur for new complaints and interim measures shall also monitor compliance with the Committee’s requests for interim measures. 6. The State party may inform the Committee that the reasons for the interim measures have lapsed or present arguments why the request for interim measures should be lifted. 7. The Rapporteur, the Committee or the Working Group may withdraw the request for interim measures
- (5) I danni irreparabili sono quelli rispetto ai quali nessun ricorso può fornire una compensazione adeguata. Le interim measures vengono generalmente richieste in caso di espulsione di un individuo verso un Paese nel quale è a rischio di tortura o qualora la condanna a morte violi le prerogative del soggetto nei confronti del quale è pronunciata. Il Comitato ha invitato lo Stato convenuto ad adottare le misure di cui all’art. 108 del regolamento di procedura altresì in relazione all’allontanamento di un individuo malato e bisognoso di cure mediche non garantite nel Paese di destinazione e anche quando il ricorrente sia in reale e personale pericolo perché appartenente ad una certa comunità
- (6) La figura del “Relatore speciale per i nuovi ricorsi e le misure ad interim” è stata introdotta nel 2002 per migliorare e razionalizzare lo svolgimento delle fasi preliminari della procedura di esame dei ricorsi individuali (cfr. artt. 98, 99 e 109 del Reg. ComCT)